Perché vietare il Burkini in Italia sarebbe incostituzionale

Perché vietare il Burkini in Italia sarebbe incostituzionale | Salvatore ...

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I sindaci italiani potrebbero emanare ordinanze che vietino il "burkini", così come hanno fatto i loro colleghi francesi? Per rispondere a questa domanda, bisogna interrogarsi sul significato che il principio di laicità ha in questi due paesi. In Francia, erede e custode dell'Illuminismo, la laicità della Repubblica, sancita espressamente nel primo articolo della Costituzione, è intesa in senso negativo, cioè come assoluta neutralità delle istituzioni pubbliche nei confronti del fenomeno religioso, considerato fattore di potenziale divisione sociale. Lo Stato deve garantire a tutti libertà di religione, senza ingerenze, ma questa deve rimanere un "affare privato", privo di rilievo sociale o giuridico. Nessun concordato o intesa, dunque, ma netta separazione tra Stato e confessioni religiose; ebrei, musulmani, cristiani a casa, ma francesi repubblicani fuori.
Di conseguenza, in Francia, gli alunni delle scuole pubbliche (eccetto le Università) non possono portare "segni o abbigliamenti mediante i quali (...) manifestano vistosamente un'appartenenza religiosa", velo incluso, pena la sospensione e l'espulsione (legge n. 228/2004). Analogamente, è vietata "la dissimulazione dell'identità tramite l'occultamento del viso negli spazi pubblici" e nei luoghi di lavoro aperti al pubblico, facendo uso d'indumenti religiosi integrali che coprono il volto, come il burqa o il niqab (o hijab) (legge n. 1192/2010 non censurata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nelle due sentenze dell'1 luglio 2014 e del 26 novembre 2015).
Nel nostro Paese, al contrario, la laicità dello Stato è intesa in senso positivo e inclusivo, considerandosi il fenomeno religioso come esperienza non solo privata ma sociale e pubblica, che la Costituzione guarda con favore come espressione della personalità di ciascuno. Per questo, l'art. 19 della nostra Costituzione precisa che "tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa" non solo "in qualsiasi forma, individuale o associata" ma anche "di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume".
Laicità, quindi, non vuol dire "indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni" (C. cost. 203/1989) ma "equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose" (C. cost. 329/1997; 508/2001) e, in più, "garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale" (203/1989). Compito della Repubblica, infatti, è "garantire le condizioni che favoriscano l'espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione", la quale «rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2" Cost. (334/1996).
Di conseguenza, in Italia è sancito, a esempio, il diritto di professare il proprio credo religioso in pubblico; il diritto d'obiezione di coscienza per motivi religiosi; il diritto all'assistenza religiosa nei luoghi pubblici (i ricoverati negli ospedali, i detenuti nelle carceri, i militari nelle caserme, gli studenti che vogliono frequentare l'ora di religione); il diritto di non lavorare per onorare determinate festività religiose; i finanziamenti pubblici per la costruzione di edifici destinati al culto (C. cost. 195/1993; 346/2002). Se queste sono le coordinate costituzionali, pare evidente che l'uso del burkini non possa essere vietato nel nostro paese, sia perché non costituisce una minaccia per l'ordine pubblica, sia perché espressione della libertà di culto.
Innanzi tutto esso, per sua natura, non ricade nel divieto di utilizzare qualunque "mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo" (art. 5 l. 152/1975; v. anche art. 85.1 TULPS). Peraltro per autorevole giurisprudenza, l'esercizio della libertà religiosa è annoverato tra tali giustificati motivi. Difatti, a proposito del burqa, indumento ancor più integrale del "burkini", il Consiglio di Stato (VI sez., 3076/2008), ha precisato che esso "non costituisce una maschera, ma è un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa; (...) quindi è del tutto errato il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico; (...) si tratta di un utilizzo che generalmente non è diretto ad evitare il riconoscimento [sempre possibile a richiesta delle forze dell'ordine], ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture" (C. Stato, VI 3076/2008).
Certo, nessuno qui vuole nascondere che, oltreché espressione del diritto alla propria identità culturale e/o religiosa, il "burkini" possa costituire - ma non necessariamente costituisca - una forma d'intollerabile sottomissione della donna e di lesione della sua dignità (ché altrimenti dovremmo vietare alle suore di andare in spiaggia...). Epperò chiediamoci se un simile divieto costituisca il mezzo principale e migliore per combattere tali fenomeni oppure se ben più seri e decisivi sono gli altri fronti su cui vincere la battaglia per un'effettiva parità tra uomo e donna nel mondo musulmano, a cominciare dal diritto alla scolarizzazione dei figli (e figlie) degli immigrati musulmani e un loro effettivo inserimento nella vita sociale. Non è certo un costume da bagno, fintantoché espressione di una libera scelta, che minaccia il nostro vivere civile ma quei reati che, benché culturalmente motivati dall'obbedienza a tradizioni sociali e religiose, ledono la dignità della persona umana, come l'infibulazione o la poligamia. Alzare nuovi muri di divisione o di emarginazione non solo rischia di essere inutile ma anche controproducente, come purtroppo le drammatiche conseguenze del fallito modello d'integrazione francese stanno a dimostrare.


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