L’oleodotto segreto nel deserto di Israele
Costruito nel 1968 con l’Iran dello Scià è al centro di una doppia causa con ecologisti e ayatollah. La società è coperta dal
Il
cartello indica la strada per entrare, la guardia armata invita a
restare fuori, a ripercorrere all’indietro il viale colorato dai fiori
di carta della bougainvillea. Circondata dalle dune, la Eilat Ashkelon
Pipeline Company pubblicizza quello che in realtà vuole mantenere
segreto. Il simbolo con i tubi e la petroliera stilizzati sui cancelli, i
depositi per il greggio, l’andirivieni dei camion verso il porto: tutto
è visibile, alla luce abbagliante del sole sul Mediterraneo. Eppure la
società è coperta dal segreto di Stato, protetta dalla censura militare.
Gli israeliani non possono sapere i nomi di chi siede nel consiglio di
amministrazione, in un Paese dove ormai è pubblica perfino l’identità
del capo del Mossad.
Le attività dell’Eapc sono insabbiate come il fiume nero che
ha allagato il deserto del Negev nella notte del 3 dicembre 2014. I
cinque milioni di litri sono fuoriusciti da una rottura nell’oleodotto,
hanno invaso la riserva naturale di Evrona, contaminato i tronchi delle
acacie centenarie, le pozze dove si abbeverano duecento gazzelle. Pochi
giorni dopo le ruspe hanno coperto la chiazza scura e densa con terra
arida, in superficie non si vede più nulla, sotto i danni possono durare
decenni.
È considerato il disastro ambientale più grave nella storia di Israele,
la causa contro la società va avanti da mesi, le associazioni
ecologiste continuano a presentare petizioni per riuscire a identificare
i responsabili. Orit Kratz, l’avvocata che rappresenta il governo, ha
dichiarato in tribunale «di non poter confermare o negare che esistano
legami tra l’Eapc e lo Stato». I giudici hanno di recente respinto la
richiesta di togliere Benjamin Netanyahu dalla lista dei querelati, è
improbabile che il primo ministro accetti di andare in aula a
testimoniare.
Perché — spiega il quotidiano Haaretz — la riservatezza che
offusca le operazioni della compagnia è considerata vitale dal premier.
Che insisterebbe a tutelare l’Eapc per colpire il nemico più
irriducibile. L’oleodotto è stato costruito nel 1968 con investimenti al
50 per cento iraniani. Allora al potere c’era lo Scià che aveva
richiesto la clausola di riservatezza per non pubblicizzare troppo tra i
vicini mediorientali i buoni rapporti con lo Stato ebraico.
Dopo la rivoluzione islamica del 1979, Israele da socio in affari diventa il
Piccolo Satana, ancora più detestato dagli ayatollah del Grande
(l’America). Il premier Menachem Begin impone di non pagare più i
dividendi a un Paese ormai ostile, l’oleodotto continua a pompare
greggio. Da ventidue anni gli iraniani cercano di recuperare quello che
spetterebbe loro, i tribunali in Svizzera e in Francia a cui si sono
rivolti per l’arbitrato internazionale calcolano il debito accumulato e
il risarcimento in oltre 1 miliardo di dollari. Per il regime riuscire a
spillarli sarebbe una vittoria politica e strategica. Per Netanyahu è
inaccettabile doverli pagare: come sovvenzionare — ragionano i suoi
consiglieri — gli armamenti della nazione che proclama di volerci
distruggere.
Aluf Benn, direttore di Haaretz, sostiene che la segretezza vada
superata: «I manager dell’Eapc godono di privilegi stravaganti e
straordinari, se confrontati a quelli di altre aziende pubbliche. I
dossier della Corte dei Conti che criticavano duramente la gestione sono
stati seppelliti e dimenticati». La serie di articoli dedicati dal suo
giornale alle attività della compagnia petrolifera è stata condannata
dalla censura militare perché avrebbe «danneggiato la sicurezza del
Paese».
Anche Tamar Zandberg, deputata all’opposizione con
la sinistra radicale di Meretz, chiede che la riservatezza venga in
parte rimossa, lo scrive in un’interpellanza al procuratore generale
dello Stato: «Gli israeliani hanno diritto di conoscere i salari, le
qualifiche, i bilanci, gli investimenti di un gruppo in cui — pare —
finiscono anche i loro soldi».
La linea a zig zag mostra il percorso dell’oleodotto dal
porto di Ahskelon a Eilat sul Mar Rosso. La strada alternativa per il
petrolio era stata voluta dal governo israeliano per sottrarsi agli
eventuali ricatti economici del leader egiziano Gamal Abdel Nasser che
minacciava di chiudere il canale di Suez ai traffici internazionali. La
mappa sta appesa negli uffici a Tel Aviv di Adam Teva v’Din,
l’organizzazione ambientalista che guida le petizioni alla Corte Suprema
e le cause per danni delle comunità nel Negev. «La segretezza impedisce
di risalire — spiega l’avvocata Leehee Goldenberg — ai responsabili
della fuoriuscita di petrolio». Indica la cartina, il filo di tubi che
unisce il Mediterraneo al triangolo dove Israele incontra la Giordania e
l’Egitto: «Quali sostanze scorrono lì dentro? In quale direzione? È
ancora greggio? Quanto è tossico? Per garantire il “segreto di Stato” la
gente non può neppure sapere che cosa le scorra vicino a casa».
2 agosto 2016 (modifica il 2 agosto 2016 | 22:17)
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