Lieberman: giornalisti nemici dei soldati che combattono i terroristi


Per i politici la colpa è sempre dei giornalisti. E anche il ministro israeliano della difesa, Avigdor Lieberman, si è aggiunto all’elenco di chi punta l’indice contro i media. A suo dire i giornalisti israeliani (facendo il loro lavoro) impedirebbero ai soldati di svolgere i loro compiti, instillando in loro il timore che potrebbero essere giudicati per quanto fanno nei Territori palestinesi occupati. «Mi aspetto che la stampa lavori sodo per rafforzare la capacità deterrente di Israele contro i nostri nemici e per non scoraggiare i nostri soldati dal combattere i terroristi», ha detto il ministro due giorni fa. Parole che avevano un fine preciso.
Lieberman infatti ha deciso di scendere in campo in difesa dei due soldati finiti sotto i riflettori per aver ucciso due palestinesi che non rappresentavano alcun pericolo. Il primo, il sergente Elor Azaria, è sotto processo per aver sparato, lo scorso marzo a Hebron, a sangue freddo alla testa di un giovane palestinese che poco prima aveva ferito con un coltello un altro militare. Il palestinese, Abdel Fattah al Sharif, ferito dagli spari di altri soldati, era a terra, praticamente immobile e non in condizione di nuocere, quando Azaria lo ha ucciso. L’accaduto è stato ripreso dalla telecamera di un palestinese che coopera con il centro israeliano per i diritti umani B’Tselem che ha subito diffuso le immagini facendo scattare l’arresto del sergente. Il secondo militare, di cui non è nota l’identità, venerdì scorso ha ucciso un palestinese disarmato, Eyad Hamed, 38 anni di Silwad (Ramallah), che non avrebbe rispettato l’intimazione di alt. Per Lieberman la stampa ha già condannato i due soldati. Con un insolito approccio garantista, il ministro ha spiegato che «occorre rispettare il principio della presunzione di innocenza, si è colpevoli solo dopo una sentenza definitiva dei giudici». Infine ha affermato che chi combatte il terrorismo «non può svolgere il suo dovere facendosi accompagnare da un avvocato».
Lieberman e altri ministri cavalcano lo sdegno dell’opinione pubblica schierata apertamente a sostegno dei due soldati finiti sotto accusa. Per la maggior parte degli israeliani i due militari hanno semplicemente fatto il loro dovere: prima si spara e poi si fanno domande «quando si a che fare con i terroristi». E in questo quadro il terrorista non è solo colui che fa esplodere una bomba o che compie un attacco armato ma anche il palestinese che lancia una pietra contro un’automobile israeliana o che «si comporta in modo sospetto». Su questo punta la difesa per ottenere la piena assoluzione per Elor Azaria, accusato peraltro solo di omicidio colposo. Il sergente israeliano afferma di aver sparato ad Abdel Fattah al Sharif per impedire che il palestinese azionasse una cintura esplosiva (che in realtà non esisteva). Una versione smentita dalle testimonianze di alcuni militari, incluso il suo comandante Tom Naaman. Tuttavia negli ultim i giorni Azaria ha visto migliorare la sua situazione processuale grazie ad una valanga di deposizioni e testimonianze, anche di alti ufficiali – come gli ex generali Shmuel Zakai, Dan Biton e Uzi Dayan – a suo favore.
Dayan in particolare, già qualche giorno prima della sua deposizione, parlando a Radio Darom, aveva lasciato capire che l’uccisione di Abdel Fattah al Sharif non doveva entrare in un’aula di tribunale perché, ha lasciato capire, andava risolta all’interno dell’Esercito. A sostegno di ciò Dayan ha portato l’esempio di tre lavoratori palestinesi, a bordo di un minibus, uccisi il 10 marzo 1998, all’incrocio Tarqumiya, tra Israele e la Cisgiordania, da soldati israeliani di guardia un posto di blocco. I militari dichiararono che avevano aperto il fuoco di fronte all’intenzione dell’autista del minibus di investirli. Una versione che fu smentita subito dalle indagini. I soldati furono fermati e interrogati ma non furono processati per l’omicidio che avevano commesso.
Intanto Human Rights Watch, in un suo rapporto, mette sotto accusa l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen in Cisgiordania e il movimento islamico Hamas a Gaza che «arrestano, ingiuriano e incriminano penalmente giornalisti e attivisti che esprimono in modo pacifico critiche verso le autorità». Secondo l’Ong con sede negli Usa, in Cisgiordania l’Anp arresta «attivisti e musicisti che prendono in giro le forze di sicurezza palestinesi e accusano il governo di corruzione» in commenti postati su Facebook o in graffiti e canzoni hip hop. L’Ong riferisce il caso di un’attivista di Gaza critico di Hamas «arrestato e intimidito» e quello di un giornalista, finito in manette, perché «aveva postato la foto di una donna che cercava da mangiare in un bidone di spazzatura».

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