Fulvio Scaglione : La porta d’ingresso dell’islam








Mentre la cara vecchia Europa va a caccia di quattro burkini, gli uomini che lavorano per imporre quello e molto altro a tutti i musulmani e le musulmane del mondo trovano spazio libero, nell’indifferenza quasi generale. Nei Balcani, cioè nell’immediata periferia continentale, a poche centinaia di chilometri dall’Italia, procede e si consolida l’insediamento dell’islam radicale di stampo wahabita. Un pericolo ben noto agli investigatori (nel dicembre del 2015 fu arrestato nel nostro Paese un gruppo di kosovari che cercava di reclutare combattenti da inviare in Siria) ma trascurato dai politici, spesso più attenti al proprio interesse elettorale immediato che non a quello a lungo termine dei cittadini.

Per approfondire: Il pericolo jihad nei Balcani


L’esatto contrario del modo di operare degli ideologi del wahabismo, che dispongono di grandi mezzi economici ma sono pazienti, tenaci e guardano lontano. Abbiamo un esempio plastico sotto gli occhi. Nel 2006 Patrick Sookdheo, per molti anni direttore dell’Institute for the Study of Islam and Christianity, calcolò che il re Fahd dell’Arabia Saudita, solo con il proprio argent de poche, era riuscito a far costruire 2000 scuole islamiche, 202 collegi universitari, 210 centri di cultura islamica e 1500 moschee nei cinque continenti. Re Fahd rimase sul trono dal 1982 al 2005 ma in realtà già nel 1995, colpito da un ictus, aveva dovuto cedere i poteri al principe ereditario Abd Allah, che poi gli succedette alla guida del regno. Già dal 2000, infatti, troneggia nel centro di Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, la moschea intitolata proprio al suo nome e ovviamente improntata al culto wahabita. Costata 30 milioni di dollari, può ospitare 1500 fedeli in preghiera ed è la più grande moschea dei Balcani.
Proprio la Bosnia-Erzegovina è uno dei punti critici. Come in Medio Oriente, la carta del settarismo, giocata senza risparmio dalle grandi potenze, si è rivoltata contro la minoranza più indifesa, i cattolici: erano più di 800 mila prima del conflitto, sono appena 400 mila oggi, e in lento ma continuo calo. Nel frattempo, come denunciato più volte dal cardinale Pulic, prosegue l’islamizzazione della Bosnia con i metodi del wahabismo.
Nei primi anni Duemila, nella sola Sarajevo, è stato costruito un centinaio di moschee e almeno 70 centri di cultura islamica, quasi tutti finanziati dalle petromonarchie del Golfo Persico. Un processo che sta cambiando non solo la composizione etnico-religiosa del Paese ma anche la natura dello stesso islam bosniaco, storicamente influenzato dalle tradizioni dell’impero ottomano, quindi tollerante ed “europeo”.
Il processo che ha prodotto tutto questo è ben descritto in La porta d’ingresso dell’islam (Zambon Editore) di Jean Toschi Marazzani Visconti. Grande conoscitrice dei Balcani, Marazzani Visconti ripercorre nel libro, ma anche nella realtà geografica, le piste delle guerre nell’ex Jugoslavia e, di conseguenza, le radici degli attuali fenomeni. Dall’appoggio Usa ai gruppi islamici e islamisti all’accorrere dei foreign fighters di allora (miliziani che si erano fatti le ossa in Afghanistan e in Cecenia) verso la guerra di Bosnia, all’insediamento dell’islam radicale istituzionale. Oggi, non a caso, la Bosnia-Erzegovina, con una popolazione di 3,8 milioni di abitanti, è uno dei Paesi d’Europa ad aver fornito allo Stato islamico di Al Baghdadi il maggior numero di volontari: circa 200 persone (delle quasi 160 maschi), per la metà poi rientrati in Bosnia.
Altri due Paesi sensibili, da questo punto di vista, sono il Kosovo e l’Albania. Il primo, soprattutto. Come ha scritto di recente il New York Times (quotidiano insospettabile, visto che tra l’altro si spende in una campagna senza sosta contro Donald Trump e a favore di Hillary Clinton), “da allora (dopo l’intervento Usa e Nato contro la Serbia, n.d.r), e per la gran parte del tempo sotto gli occhi dei generali americani, il denaro e l’influenza sauditi hanno trasformato una società musulmana un tempo tollerante ai confini dell’Europa in una fonte di estremismo e in una fabbrica di jihadisti… reclutati, dicono gli investigatori kosovari, da una schiera di religiosi estremisti e associazioni segrete finanziate dall’Arabia Saudita e da altri Paesi conservatori del Golfo Persico attraverso un network impenetrabile di donazioni da parte di organizzazioni caritative, privati e ministeri”. Stiamo parlando dell’unico Paese islamico al mondo che abbia nel cuore della capitale Pristina una statua di un presidente americano, Bill Clinton, lo stesso al quale è intitolato anche uno dei principali boulevard. Lo stesso Paese, però, che ha visto partire più di 300 suoi concittadini per andare a combattere nel Siraq nelle file dell’Isis.
E in Albania, la comunità islamica tradizionale è preoccupata per l’espansione dei wahabiti, che avviene anche lì con i soliti sistemi. Già nel 2005, lo studioso dell’islam balcanico Xhavit Shala invitava le autorità a “soffocare il fuoco wahabita” che si propagava “grazie al supporti di certi Paesi del Golfo Persico” e “alle attività di determinate organizzazioni caritative della penisola arabica”. E anche in questo Paese, dove il 70% della popolazione è musulmana ma dove la non è mai stata il fattore principale dell’identità nazionale, possiamo dire che si tratta di storia vecchia: nel 1994 Osama bin Laden fu segnalato in Albania e nel 1999 la visita di una delegazione politica americana di alto livello fu cancellata proprio per il rischio di azioni terroristiche.
La situazione per ora pare ancora sotto controllo. Ma come si diceva, gli strateghi della diffusione del wahabismo e del radicalismo islamico lavorano sui tempi lunghi, non hanno fretta. Il rischio è che, col passare del tempo, si ripeta una situazione tipo Belgio. Nei primi anni Sessanta il re Baldovino consentì ai sauditi di insediare la loro prima grande moschea wahabita in Europa; cinquant’anni dopo, abbiamo scoperto che il quartiere di Molenbeek era diventato una centrale del terrorismo ispirato all’estremismo sunnita dell’Isis.

Per approfondire: Belgio, se i jihadisti li invita il re


Quello che fa impressione è che nei Balcani si sono ripetute e si ripetono le dinamiche che hanno devastato il Medio Oriente. La “diffusione della democrazia”, l’appoggio alle milizie islamiste, il “regime change”, l’insediamento di Governi vassalli quando non fantocci, la penetrazione dell’islamismo radicale di Stato. Conviene leggere con attenzione “La porta d’ingresso dell’islam” di Jean Toschi Marazzani Visconti. Alla luce di quanto successo negli ultimi anni, non ultimo il golpe in Turchia, l’idea che il vero scopo delle guerre balcaniche fosse la creazione della Dorsale Verde, ovvero, per citare l’autore, “di una solida rete di Stati islamici (o meglio, di Stati a maggioranza religiosa musulmana, retti da governi espressione di partiti islamisti) che andasse dal Golfo Persico al Mare Adriatico”, assume una luce assai diversa. E piuttosto brillante.

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