Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità

 
 
 
 
di Fabrizio Gatti, foto di Massimo Sestini per l’Espresso  
L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più.

Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea.

Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar).

Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi.

La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca.

La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato.

Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore.

«Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo».

Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree.

Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta.
Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora.
Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo.

Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo

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