Turchia e jihadisti in Ucraina contro la Russia
Per
Ankara la crescente collaborazione con l'Ucraina di Poroshenko
rappresenta una risorsa strategica. A dispetto delle tensioni emerse con
gli Stati Uniti a seguito del fallito golpe e della lettera inviata da
Erdoğan a Putin in merito…
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[carta di Laura Canali]
Malgrado le
tensioni post-golpe fallito con gli Stati Uniti e il riavvicinamento
tra Erdoğan e Putin, il sostegno a Kiev in chiave anti-Mosca rimane una
risorsa strategica di Ankara. L’asse con i terroristi del Caucaso (non
solo) russo e la “leva tatara”.
di Maurizio Vezzosi
Per Ankara la crescente collaborazione con l’Ucraina di Poroshenko rappresenta una risorsa strategica. A dispetto delle tensioni emerse con gli Stati Uniti a seguito del fallito golpe e della lettera inviata da Erdoğan a Putin in merito all’abbattimento del caccia russo Su-24,
Nella progressiva intesa,
speculare al deteriorarsi delle relazioni di entrambe le parti con
Mosca, si è registrata una spinta da parte turca soprattutto dopo l’inizio delle operazioni militari russe in Siria. Proprio
l’abbattimento del Su-24 esemplifica il favore con cui Ankara ha visto
sin dal suo inizio l’intervento del Cremlino nella vicina Siria.
Le sanzioni economiche e la pressione militare di Mosca sulla Turchia hanno suggerito a Erdoğan una tattica più prudente.
Ankara e Kiev, oltre alle relazioni economiche – hanno
anche discusso di un’area di libero scambio – stanno sviluppando una
crescente intesa militare in chiave antirussa. Nei mesi scorsi sono
stati conclusi numerosi accordi, tra cui quello tra
le compagnie di Stato Ukroboronprom e Havelson per la produzione di
tecnologie militari: motori, radar e sistemi di comunicazioni.
A maggio, nel quadro dell’avvicinamento dell’Ucraina alla Nato, Ankara e Kiev hanno firmato un piano di cooperazione militare riguardante piani di difesa, addestramento delle truppe e assistenza reciproca per quattro anni.
Al Summit Nato di Varsavia è stata discussa anche la creazione della Flotta interforze
di stanza sul Mar Nero, un’idea sostenuta anche dall’Ucraina di
Poroshenko; nelle esercitazioni previste per i prossimi mesi saranno
incluse delle manovre congiunte tra la flotta turca e quella ucraina,
benché le capacità teoriche e pratiche di quest’ultima siano assai
limitate.
In Donbas, oltre a contractor e specialisti polacchi, baltici, statunitensi
e israeliani, oltre ai numerosi mercenari provenienti dalle repubbliche
ex sovietiche dall’Asia centrale e dalle zone islamiche della Russia, è
stata documentata la presenza di combattenti provenienti dai paesi arabi, in alcuni casi affiliati allo Stato Islamico.
Secondo l’intelligence della Repubblica popolare di Donetsk (Dnr),
il neonazista Dmitry Yarosh – ex leader di Pravy Sektor e consigliere
del ministero della Difesa ucraino – si sarebbe recato a Baghdad con il
sostegno statunitense per incontrare alcuni esponenti dello Stato
Islamico. Nel 2014 Yarosh aveva chiesto al leader jihadista ceceno Doku Umarov (di cui all’epoca non era stata ufficializzata la morte) di “agire contro la Russia”.
Per quindicimila dollari, i membri dello Stato Islamico sarebbero in grado di acquistare passaporti ucraini perfettamente legali con cui far accedere al paese i combattenti jihadisti.
Nel quadro di una guerra civile che si trascina da oltre due anni e di una situazione economica catastrofica, l’Ucraina sta diventando uno degli epicentri del jihadismo in Europa. E una meta ambita per il traffico di stupefacenti e naturalmente di armi, di cui lo scorso anno si è confermata il nono esportatore mondiale. Proprio di produzione ucraina sono varie armi rinvenute in un deposito dello Stato Islamico in Siria, forse in parte cedute originariamente all’Arabia Saudita.
La presenza di jihadisti in Ucraina, come l’intesa tra Ankara e Kiev, è aumentata in modo esponenziale di riflesso all’intervento russo in Siria.
Intervento che ha messo alle corde lo Stato Islamico e creato non pochi grattacapi alla Turchia
neo-ottomana di Erdoğan. Questo spiega il cambio dell’atteggiamento di
Ankara verso Damasco e la recente normalizzazione dei rapporti con
Israele.
A dispetto dell’apparente normalizzazione dei rapporti con Mosca,
legittimata peraltro dalla cornice atlantica, Ankara non fa mistero del
proprio sostegno, anche militare, all’Ucraina di Poroshenko. Non a caso
è stata segnalata
la presenza di istruttori militari e di reparti speciali dell’esercito
turco nella regione di Kherson e nella cosiddetta “Zona Ato”: in questo
senso, non è peregrino interrogarsi sul nesso dell’intesa di questa con Kiev e sulla presenza di jihadisti in territorio ucraino.
La Turchia, oltre a cercare di consolidare il proprio status di potenza regionale,
nell’intesa con l’Ucraina cerca anche di controbilanciare il rinnovato
sostegno diplomatico, politico e militare che la Russia offre ai curdi
del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), disponendo così di una
leva da utilizzare in chiave antiturca, utile a stemperare le frizioni
tra le minoranze curde e il governo siriano, soprattutto di fronte al
nemico comune dell’Is.
Nonostante le mire turche abbiano subito un deciso ridimensionamento dopo l’intervento russo in Georgia, non è possibile leggere fuori da questo quadro il decongelamento del conflitto tra l’Azerbaijan e l’Armenia – rispettivamente alleate di Ankara e Mosca – per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh.
Nello scontro con Mosca riapertosi dopo il collasso dell’Urss,
la Turchia ha sostenuto con il benestare Usa la destabilizzazione del
Caucaso russo e non, avallando – principalmente tramite la “leva cecena”
– quello che forse è stato il primo progetto di un Califfato dopo le
vicende afghane.
È verosimile con l’attentato di Istanbul la Turchia abbia pagato la necessità, sopratutto economica, di ammorbidire il proprio atteggiamento verso Mosca.
A dar credito a quest’ipotesi c’è il fatto che i tre kamikaze dell’aeroporto provenissero da Uzbekistan, Kirghizistan e Cecenia, regione di origine anche di Akhmed Chatayev, la presunta mente dell’attentato.
I jihadisti del mondo ex sovietico –
e probabilmente anche gli Stati del Golfo – sembrano non aver la minima
intenzione di accettare un ipotetico stemperamento dell’aggressività
turca verso la Russia.
Nel Caucaso e in Ucraina, così come nei Balcani, in Siria e in Asia centrale, l’agitazione
dell’elemento etnico, nazionale e religioso risulta di frequente alla
base della politica estera di Ankara, che giustifica il proprio ruolo
con la presenza delle minoranze turche.
In Crimea e Ucraina, la
“leva tatara” e la politica etnica più in generale sono un cardine della
strategia della Turchia, strategia dalla quale il governo ucraino è
evidentemente convinto di poter trarre beneficio.
In questo senso, prendendo a pretesto il conflitto in Donbas, il governo turco ha gestito lo spostamento di
ben trecento famiglie di turchi residenti nella provincia di Kharkov
nelle zone del sud-est della Turchia cercando di compensare, seppur in
scala, la schiacciante maggioranza curda della zona.
Oggi in Crimea i tatari sono 280 mila, circa il 12% dell’intera popolazione della penisola. A Kherson e nella regione a ridosso dell’omonimo stretto, i dati
dell’ultimo censimento ucraino del 2001 riportano la presenza
complessiva di nazionalità turca per circa l’1% dell’intera popolazione
della regione, che supera abbondantemente il milione.
Il concorso musicale Eurovision,
vinto tra non poche polemiche dalla cantante ucraina di origine tatara
Jamala, ha riportato le vicende dei tatari di Crimea alla ribalta delle
cronache. La canzone 1944 racconta
del trasferimento nelle zone dell’Asia centrale di migliaia di tatari
di Crimea a seguito del loro sostegno offerto al Reich durante
l’Operazione Barbarossa e del loro inquadramento nelle formazioni
militari naziste.
Le sensibili differenze tra le minoranze turche di Ucraina e di Russia –
ad esempio, tatari di Crimea, tatari del Volga, tatari degli Urali,
turchi meskheti e molti altri – possono risultare relative rispetto al
“minimo comune denominatore” della base linguistica e dell’identità
pan-turca, uno dei grimaldelli della geopolitica di Ankara.
Proprio in Crimea – allora ucraina – nel 2013 si era tenuto il congresso
internazionale dell’organizzazione islamista Hizb al-Tahrir (Partito
della Liberazione), attiva in quaranta paesi del mondo con il sostegno
di circa un milione di simpatizzanti, tra i quali anche gli islamisti
tatari rappresentati da Fazil Hamzayev. In Crimea, Hizb al-Tahrir è
stata messo fuori legge in quanto fautrice dell’estremismo religioso
dopo l’annessione alla Federazione Russa, nella quale era già illegale.
Ad Ankara, invece, si è tenuto a marzo l’ultimo congresso internazionale dell’organizzazione islamista.
Sarebbero vari anche i tatari di Crimea partiti alla volta della Siria e
inquadrati nella formazione Katiba al-Muhajireen: tra loro il kamikaze
Abu Kalid, suicida in un attentato ad Aleppo nel 2013, e il jihadista
Abdullah Dzepparov.
Un documento di cui sarebbero entrati in possesso alcuni hacker russi descrive un progetto sul
quale esisterebbe già un accordo di massima tra Poroshenko e Erdoğan.
Nella regione di Kherson dovrebbero insediarsi ben duecentomila turchi
meshketi – un numero pari a venti volte quello degli attuali residenti
– trasformando la zona in una “Autonomia nazionale tataro-crimeana” e
facendo assumere all’odierna Kherson il nome turcofono di Khan-Geray, in
omaggio al khanato ottomano che nel XV secolo in Crimea succedette alla
dominazione mongola, poi sconfitto dalla Russia zarista circa tre
secoli più tardi.
L’accordo potrebbe offrire garanzie alla Turchia rispetto alle incalzanti richieste ucraine
di sostegno economico, militare e energetico – oltre al carbone, con
cui tamponare i deficit provocati dal controllo della stragrande
maggioranza delle miniere del Donbas da parte degli insorti.
L’ipotesi di una guerra scatenata in Crimea da milizie tatare,
reparti speciali turchi, regolari ucraini e gruppi neonazisti contro la
Russia sembra fantasiosa. Ben più realistica appare se letta in una
strategia complessiva di balcanizzazione della Federazione Russa.
L’utilizzo di consistenti minoranze etniche, dotate di proprie strutture militari e sostegni esterni, assume un ruolo centrale
sia nella situazione presente che in quella di una futuribile – quanto
non auspicabile – detonazione su base etnica della Federazione Russa.
Nel solco del tentativo, che per il momento in Caucaso non ha avuto successo,
di trasformare vaste zone dell’ex Urss in califfati, vista la rilevanza
delle componenti islamiche e la presenza di movimenti jihadisti nello
spazio post-sovietico.
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Le ultime svolte della geopolitica turca in una carta in esclusiva per Limesonline.
Leggi anche: Perché tentare un colpo di Stato ora in Turchia?
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Il tentato colpo di Stato in Turchia arriva in un periodo molto particolare per la politica estera del paese.
Per non far naufragare definitivamente il suo progetto neottomano, il presidente turco Erdoğan è costretto a compiere più d’una piroetta tattica.
Minacce e obiettivi si sono di recente molto assottigliati, concentrandosi sulla Siria.
I curdi siriani sono assurti a nemico pubblico numero uno. Ankara considera le milizie dell’Ypg un’estensione dei terroristi del Pkk dei curdi di Turchia. Il rischio che essi creino una propria entità statuale o parastatale autonoma è la chiave per comprendere la strategia turca.
Agli occhi di Erdoğan, la minaccia terroristica in patria (a quella curda si aggiunge quella dello Stato Islamico) e l’avanzamento dei curdi siriani sono dunque due facce della stessa medaglia.
Il presidente turco ha messo la Siria al centro. La
priorità in questa fase è provare a garantire al paese martoriato da
oltre 5 anni di guerra civile l’integrità territoriale. Obiettivo che
pone Ankara sulle stesse frequenze dell’asse internazionale schierato
con Bashar al-Asad, Russia e Iran in testa.
Ecco perché Erdoğan ha compiuto passi per riavvicinarsi a Mosca e porre fine alla crisi innescata dall’abbattimento del jet russo
il 24 novembre scorso da parte turca. Una mossa motivata anche dalla
volontà di ripristinare il flusso di turisti russi sulle sponde sud del
Mar Nero e in generale di porre fine alle sanzioni economiche da parte
del Cremlino.
Ecco spiegata anche l’apertura alla permanenza di Asad durante una semestrale transizione in Siria, finora un tabù per la diplomazia turca.
Ankara e Washington sono in rotta di collisione,
visto l’appoggio di quest’ultima alle milizie curde siriane, adoperate
alla stregua di una fanteria per gli assalti alle roccaforti dello Stato
Islamico, come dimostra l’assedio di Manbij.
Non di sola Siria vive però la geopolitica della Turchia. Un altro importante e recente sviluppo è la normalizzazione dei rapporti con Israele, a 6 anni di distanza dall’incidente della Mavi Marmara che colò a picco la relazione bilaterale.
Spezzare l’isolamento regionale era una priorità di Erdoğan. Ma la mossa è stata motivata soprattutto dalla realizzazione dei due Stati che per esportare in futuro il gas israeliano dei giacimenti offshore
sarà necessario progettare un gasdotto che transiti per Cipro e
Turchia; per quest’ultima è l’opportunità di rinverdire i sogni di
ergersi a hub regionale dell’energia.
Alla voce delle relazioni da riallacciare resta ancora quella dell’Egitto di al-Sisi: i rapporti, pessimi dopo il rovesciamento del presidente Morsi
(e dei Fratelli musulmani ideologicamente vicini all’islam politico
di Erdoğan), attendono ancora di essere normalizzati. Magari grazie alla
mediazione dell’Arabia Saudita, partner strategico di Ankara.
Testo di Federico Petroni.
Carta inedita di Laura Canali.
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