Sumaya, consigliera milanese col velo. «Un atto di devozione per Dio»
Sumaya
Abdel Qader, prima consigliera musulmana del Comune di Milano, ci
racconta che si impegnerà «per tutti, anche per i non credenti». E che
se una…
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Il velo? Il mio atto di devozione verso Dio. Non un simbolo, non un’identità. Nella mia religione, Dio chiede alle donne di coprirsi. Non è facile, ma io rispondo a questa messa alla prova».
Sumaya Abdel Qader è la prima consigliera musulmana del Comune di Milano: l’altro ieri ha partecipato al primo Consiglio del suo mandato a Palazzo Marino. Madre di tre figli, 38 anni, è figlia di immigrati giordano-palestinesi ed è laureata in biologia, in lingue e culture straniere e in sociologia. E ritiene che il velo, che indossa da quando aveva 14 anni, non faccia tutta questa differenza.
«Non mi pongo nemmeno la questione – dice -: il velo lo vedono gli altri. Per me è importante solo dimostrare di essere in grado di svolgere il mio ruolo. Chi siede in Consiglio è lì perché è stato votato dalla gente, che l’ha ritenuto capace di governare e amministrare la città».
Sarà la voce istituzionale dei musulmani?
«Anche, ma non solo: mi impegnerò per tutti i cittadini, pure per i non credenti. Per i musulmani cercherò di portare un contributo per risolvere questione delle moschee. Ci lavoreremo, cercheremo di superare le difficoltà. Ma, come è mia abitudine, non prometto mai niente».
Donna, madre, musulmana: si è mai sentita discriminata?
«No, all’interno del mio partito non è mai stato un problema essere musulmana praticante e donna. Da alcuni avversari sono stata criticata, ma fa parte del gioco».
E se qualcuno in futuro dovesse strumentalizzare il velo per darle contro?
«Se succederà, ne parleremo, con tranquillità. Io vivo quello che accade in modo molto sereno, con tranquillità, e anche se nella vita qualcuno ha provato a farmi pesare la questione del velo, non ricordo situazioni particolarmente critiche. Certo, non va così per tutte: ci sono ragazze che hanno avuto molti problemi».
Per loro che cosa vorrebbe fare?
«Non so quanto potere io abbia, ma vorrei spronarle, tutte, a impegnarsi nella politica e nel sociale, a non lasciarsi intimidire e a combattere stereotipi di genere e quelli culturali».
La sua storia insegna che non è vero che le donne, nella comunità musulmana, vengano lasciate in disparte.
«Io ho sempre avuto ruoli di rilievo nella mia comunità, e anzi, le maggior parte delle persone attive sono sempre state donne».
Eppure ci sono donne musulmane che vivono relegate ai margini.
«Sì, è vero: c’è una parte del mondo musulmano che sottomette la donna e le impone il velo e una vita segregata, ma questa non è l’unica verità: la realtà è diversificata. Le donne musulmane stanno lottando per emancipare le loro sorelle segregate. Certe degenerazioni appartengono a fanatici ed estremisti, e io le rifiuto totalmente».
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Se una delle sue figlie decidesse di non portare il velo?
«Sarebbe libera di farlo: una religione si può insegnare, ma non imporre. Poi, guardi, le mie bambine hanno fatto anche la Materna dalle suore. E sono molto libere di pensare e fare quello che desiderano: noi rispettiamo e cerchiamo di assecondare le loro attitudini. Una ama il disegno e il pianoforte, l’altra la chitarra, i viaggi, le lingue. E a noi piace che possano conoscere nuove culture e religioni».
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