Richard Falk : Un’improbabile uscita dell’America: allontanarsi dal Medio Oriente

Di Richard Falk
19 luglio 2016
Il motivo dell’abbandono
Pochi anni fa Barack Obama aveva dato molta importanza a un “perno” americano nell’Asia Orientale, un riconoscimento dell’emergenza della Cina e della determinazione regionale, e la relativa dichiarazione che il ruolo americano nell’Asia Pacifica dovrebbe essere trattato come un interesse strategico primario e necessario  da far rispettare alla Cina. Questo cambiamento implicava anche l’accettazione da parte di Obama che gli Stati Uniti  si erano impegnati apertamente e senza successo nella politica del Medio Oriente, creando incentivi per adattarsi alle priorità della politica estera. Il perno del 2012 era una correzione tardiva dell’approccio neo-conservatore alla regione durante la presidenza di George W. Bush che raggiunse il suo punto culminante con il disastroso intervento in Iraq nel 2003 che continua a causare risonanze negative in tutta la regione. Fu allora che l’idiozia della ‘promozione democratica’ diede un vantaggio idealistico all’intervento militare dell’America e alla prospettiva illusoria che gli occupanti avrebbero ricevuto un cordiale benvenuto dagli Iracheni   colpì un muro di pietra d’imprevista resistenza.
A posteriori, sembra evidente che, nonostante il tanto pubblicizzato “perno”, gli Stati Uniti non si sono sganciati dal Medio Oriente. Le loro politiche sono legate come sempre a Israele e totalmente impegnate nelle campagne militari in Siria e contro il DAESH. In un recente articolo sulla rivista The National Interest, Mohammad Ayoob
consiglia un disimpegno graduale dalla regione. Discute in modo molto intelligente e informato di un argomento di interesse strategico basato sulla superiorità militare di Israele, la ridotta dipendenza dell’Occidente dal petrolio del Golfo, e sull’accordo nucleare con l’Iran. In effetti, Ayoob sostiene in modo convincente, che le circostanze non giustificano più un importante impegno americano nella regione e che  mantenere tale impegno ai livelli attuali si aggiunge ai tumulti in Medio Oriente e al traboccamento di terroristi fuori dalla regione, in modi che danneggiano gli interessi americani.
Perché non ci sarà disimpegno
Il ragionamento di Ayoob è impeccabile, ma l’abbandono non ci sarà, e non perché gli Americani non siano abbastanza intelligenti da riconoscere le circostanze cambiate. Il perno costituito dall’Asia Orientale è stato un esempio recente di questo adattamento basato sulla valutazione delle mutate circostanze geopolitiche. In realtà, l’alto grado del coinvolgimento americano in Medio Oriente, è stato di per sé il risultato di un adattamento alle circostanze che sono cambiate. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la precedente preoccupazione geopolitica per l’Europa sembrò inutile e superata; il Medio Oriente con il suo petrolio, con Israele, con l’influenza islamica in espansione, la rischiosa proliferazione nucleare, sembrava allora una regione dove un forte impegno americano avrebbe consolidato il ruolo  di leader globale degli Stati Uniti. Questa percezione si rafforzò dopo gli attacchi di Al Qaida alle Torri  gemelle e al Pentagono l’11 settembre 2001 che fornirono ai “falchi” neoconservatori un pretesto per un attacco per cambiare il regime in Iraq che i neoconservatori speravano fosse soltanto un preludio a una riconfigurazione politica più elaborata della regione tramite interventi per un cambiamento di regime. [Vedere:
‘Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm’ (1996) per una comprensione più completa della mentalità dei neoconservatori orientata su Israele]. L’impresa in Iraq fallì miseramente durante l’occupazione per ricostruire lo stato che seguì all’attacco al regime di Saddam e alla sua deposizione. Il piano generale comprendeva la ricostruzione del governo e dell’economia dell’Iraq per servire gli interessi occidentali e allo stesso tempo l’ipotetica democratizzazione del paese. Ha avuto un effetto boomerang totale. Questo perno verso il Medio Oriente, dopo  la Guerra Fredda, era basato sull’opportunismo geopolitico di Washington in un contesto di persistente incapacità di comprendere le mutevoli circostanze del mondo postcoloniale, e specialmente l’equilibrio alterato tra la superiorità militare associata all’intervento straniero e all’intraprendenza della resistenza sul territorio.
Qual è quindi il motivo di questa inflessibilità rispetto al Medio Oriente, quando il disimpegno porta grossi e immediati vantaggi pratici? In parte si spiega con l’inerzia del governo, rafforzata dalla convinzione che i cambiamenti delle condizioni non sono così chiari e favorevoli come sostiene Ayoob, facendo sembrare il disimpegno vulnerabile dal punto di vista geopolitico per le future accuse alla presidenza Obama di essere  responsabile di aver “perduto il Medio Oriente,’ come se toccasse sempre all’America di perdere!
Più pertinente è una varietà di altri motivi che militano contro l’abbandono. Forse, cosa molto significativa, è il preconcetto militarista della politica estera americana che è incapace perfino di riconoscere che gli attacchi all’Iraq o alla Libia erano stati dei fallimenti. Questo rifiuto di pensare fuori dagli schemi prevale nei circoli della politica americana, facendo in modo che il dibattito su che cosa fare circa la Siria,  il DAESH si incentri sulla singola domanda: quanto dovrebbe essere impiegata la potenza militare americana per risolvere questi conflitti? Quello che Eisenhover chiamava il complesso industriale militare è arrivato a dominare l’apparato del governo a Washington, ulteriormente favorito dall’accrescimento di un’enorme burocrazia per la difesa nazionale, fin dall’11 settembre. Esistono delle minacce reali per gli interessi americani in Medio Oriente e, data questa riluttanza a fare affidamento sulle soluzioni politiche o diplomatiche per la risoluzione della maggior parte delle dispute, in pratica rende necessario che gli Stati Uniti mantengano la loro presenza militare per assicurarsi la disponibilità di opzioni per intervenire militarmente quando se ne presenti l’occasione.
C’è poi l’umore anti-internazionale che è subentrato nella politica interna americana. E’ ostile a qualsiasi tipo d’impegno internazionale diverso, a parte l’azione militare contro nemici islamici reali e immaginari. Inoltre, il Congresso degli Stati Uniti è stato completamente catturato dalla lobby israeliana che mette in palio un grosso premio, se si mantiene l’impegno geopolitico americano, così da poter condividere con Israele gli oneri e i rischi associati alla gestione delle agitazioni nella regione. Dato che non erano state previste né le insurrezioni arabe del 2011, né i robusti strascichi controrivoluzionari, si arguisce che c’è  troppa incertezza per rischiare qualsiasi ulteriore disimpegno. Questo va sommato all’affermazione che il rapido  ritiro   delle forze da combattimento americane in Iraq è stato realmente prematuro e ha provocato una ripresa di confitto civile che ha persuaso l’amministrazione Obama a impiegare di nuovo le truppe sia per aiutare nel combattimento per riguadagnare il territorio occupato dall’ISIS che per aiutare il governo a instaurare un certo grado di stabilità.
Perché dovrebbe esserci un abbandono
Né argomenti realistici sugli interessi, né considerazioni etiche di principio porteranno a un abbandono americano tardivo. Washington si rifiuta di comprendere il motivo per cui l’intervento delle forze militari occidentali nel Medio Oriente post-coloniale produce forme estreme di opposizione (per es. DAESH) che ingigantiscono i problemi che in primo luogo hanno indotto all’intervento. In sostanza, la scelta dell’intervento è una proposta con esiti sfavorevoli, ma senza di essa il coinvolgimento americano non ha senso.
Purtroppo per l’America e per i popoli di tutto il Medio Oriente, gli Stati Uniti sembrano incapaci di uscire da ancora un altro pantano geopolitico che è in parte responsabile di generare terrorismo extra-regionale del tipo che ha afflitto l’Europa negli scorsi due anni. E così, anche se il disimpegno è una linea di azione sensata, non avverrà per lungo tempo, se mai ci sarà.  Al contrario della BREXIT, per l’AMEXIT, e la geopolitica in generale, non ci sono referendum da offrire ai cittadini.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/an-unlikely-amexit-pivoting-away-from-the-middle-east/
Originale: Richardfalk.com
Traduzione di Maria Chiara Starace

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