Paola Caridi : Tutta la tragedia del mondo- crocifisso lago arancio





 
 
 
 
 

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E’ possibile che tutta la tragedia del mondo passi attraverso l’immagine  del simulacro di un uomo crocefisso? Un simulacro di quelli che riempiono la provincia italiana, la vera periferia dell’Italia. Simulacro vilipeso, semidistrutto… E’ possibile vedere qui, in questo oggetto la tragedia di tutto il mondo, oltre le fedi? La tragedia morale e fisica del mondo?
Credo di sì.
Il Gesù crocifisso si trovava nella piccola chiesa che è di fronte al Lago Arancio, prima di arrivare a Sambuca di Sicilia. Entroterra agrigentino, una conca benedetta dall’acqua da cui probabilmente, in epoca araba, passava la via dei commerci verso Palermo e, forse, sostava nel caravanserraglio di Mazallakkar, che ancora affiora dalle acque del lago artificiale. Dall’altra parte delle colline, un mare freddo e turchese. Sui pendii che scendono al lago, una macchia mediterranea e, sino a ieri, quasi intatta.
Poi, il fuoco, due giorni fa. Una ventiquattrore di incendi. Macchia mediterranea in fumo, gente che ha lasciato le abitazioni estive. Canadair e vigili del fuoco, forestali e cittadini. Sembrava tutto finito, con l’arrivare della sera. Con danni, ma finito. E invece, ieri, il tam tam delle persone, degli amici che tengono a questo pezzo di terra e di cultura. “La chiesetta è a rischio!”, ha urlato Giuseppe Verde con un messaggio sonoro su whatsapp. E poi, con voce più sommessa, delusa e allo stesso tempo serena: “Ragazzi, la chiesetta del lago si è incendiata. Ha preso fuoco. Peccato. Vergogna.”
ha preso fuoco anche la croce, diventata carbone e cenere. Il Gesù crocifisso ha perso il suo sostegno ed è caduto. Qualcuno, racconta Giuseppe Cacioppo, assessore alla cultura e vicesindaco di Sambuca, ha avuto pietà, lo ha preso e lo ha deposto sull’altare. Chi ha avuto pietà, perché i nomi indicano le persone, si chiama Michele Cannova. Lo racconta lui stesso nella conversazione virtuale che anche in un paesino di seimila anime usa i social per raccogliersi. “Il crocifisso era stato lasciato a terra tra il carbone e l’acqua, ci sono entrato oggi e per la pena l’ho preso e l’ho messo sull’altare”.
Pena. Pietà. Ci sono ancora. L’unica risposta ai tanti orrori.
L’avevo vista un’altra volta, la stessa pietà verso un crocifisso. Il simbolo di un uomo sottoposto a tortura e ucciso. Era la pietà, unità a una concretezza e una serenità inarrivabili, di tre suore che trasportavano il crocifisso fuori da una chiesa di Dubrovnik, più di vent’anni fa. Era, per la precisione, il 1994. Piena guerra nei Balcani. La chiesa era stata bombardata. Le suore stavano trasportando il crocifisso in un ricovero. Un gesto solare. Un atto di resistenza.
Singolare, vero? Salvare un simulacro mentre a poche centinaia di chilometri c’era una città sotto assedio, e sotto assedio lo sarebbe stata – Sarajevo – per mille giorni. Peccato. Vergogna.
Magari chi ha appiccato il fuoco alla chiesetta sul Lago Arancio, vicino a Sambuca, si definisce cattolico. Di certo qui, nell’entroterra siciliano, l’Isis non c’entra nulla. Nessun capro espiatorio musulmano

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