Il museo è studiato apposta per generare un senso di oppressione.
Situati nel cuore della vecchia Berlino, zona un tempo in stile
classico e oggi ricresciuta moderna dopo i bombardamenti alleati che la
hanno rasa al suolo durante la guerra, i luoghi della memoria ebraica
rivestono una funzione centrale nella sua ricostruzione. Come nella
rielaborazione dell’identità tedesca.
La reinvenzione della Germania – divenuta necessaria
dopo la capitolazione del 1945 e oggi nel pieno della sua fase
attuativa – riserva ad Israele ed alla cultura ebraica un’attenzione
privilegiata. Il motivo è facilmente comprensibile. Come spiega
Joseph Schuster,
presidente del Consiglio Centrale Ebraico di Germania, “il ricordo
della Shoah e delle responsabilità della Germania per i crimini
nazionalsocialisti appartengono oggi chiaramente al codice etico del
Paese”.
Composto da 108 comunità ebraiche sparse per tutta la Germania, il
Consiglio Centrale Ebraico
si occupa di promuovere la cultura del proprio popolo all’interno della
società tedesca, cooperando intensamente con le istituzioni di governo.
L’educazione alla memoria avviene fin dall’infanzia. “Lavoriamo insieme
al Ministero della Cultura” continua Schuster intervistato da
Gli Occhi della Guerra
“perché la vita e la cultura ebraica vengano insegnate e maggiormente
valorizzate nelle scuole e creiamo momenti in cui i non-ebrei possano
interagire con la nostra cultura, organizzando per esempio festival
cinematografici o culturali ebraici”.
L’esaltazione della cultura tedesca, così
enfatizzata durante tutto il corse della sua storia fino ad arrivare a
sfociare nel trionfalismo del regime nazionalsocialista, ha lasciato
spazio alla valorizzazione dell’elemento ebraico in tutte le sue forme.
Berlino, che è il cuore pulsante del
processo di reinvenzione del Paese, ne mostra chiaramente i segni.
Camminando per le strade ci si imbatte continuamente in pezzi di ottone dorati conficcati nei marciapiedi,
ognuno dei quali reca il nome di una persona che dovette fuggire o che
fu deportata. Sulle macerie delle costruzioni classiche del centro sono
sorti numerosi luoghi della memoria dell’Olocausto. A pochi passi dal
museo ebraico si arriva alla
topografia del terrore,
esposizione a cielo aperto delle tragedie della Seconda Guerra Mondiale.
Anche queste sono raffigurate all’interno di una spaesante struttura
labirintica. Che si trova proprio accanto alla
Wilhelmstrassee di
fianco alla Porta di Brandeburgo, dove un tempo sorgeva la cancelleria
di Hitler. Il governo tedesco concede simbolicamente alla cultura
ebraica gli stessi luoghi una volta colonizzati dal regime
nazionalsocialista. I cui riferimenti sono stati appositamente tutti
rimossi o banalizzati: il bunker di Hitler è diventato un moderno
parcheggio, la sua dimora un ristorante cinese.
La memoria delle persecuzioni subite dagli ebrei ha lasciato un’impronta indelebile sulla società tedesca.
L’eredità che la Germania ha ricevuto dalla Seconda Guerra Mondiale è
soprattutto la volontà di attribuire a se stessa la totalità delle colpe
per i crimini commessi, spesso anche di quelli non propri. Il senso di
colpa è fortemente presente nella psicologia collettiva e coinvolge
classe dirigente, mondo accademico, istituzioni politiche e nuove
generazioni. Soprattutto nei giovani, pur così lontani anagraficamente
dalle tragedie del 900, è evidente un profondo senso di inadeguatezza
verso una cultura, la propria, alla quale quasi tutti guardano con
timore perché li collega ad un senso di colpa innato dal quale è
difficile liberarsi. Esso è infatti la pietra fondante della costruzione
della nuova identità tedesca, che affonda parte delle sue radici nella
promozione della cultura ebraica. Laddove un tempo era prassi esaltare
lo Stato e la cultura tedesca, oggi lo è l’esaltazione della cultura e
dello Stato d’Israele.
I rapporti tra i tedeschi e Israele sono molto di più di una semplice alleanza politica
tra i due rispettivi governi. Quello tra la Repubblica Federale e
Israele è un legame che si rafforza di pari passo con il percorso di
inserimento della Germania all’interno del mondo occidentale. Secondo
Thomas Mann,
uno dei più celebri autori tedeschi del 900, la progressiva
occidentalizzazione e democratizzazione della Germania coincide con la
sua “sgermanizzazione” (
Entdeutschung): ossia con il mutamento
radicale dei paradigmi di una cultura storicamente anti-occidentale
sulla quale si è per secoli forgiata l’identità nazionale germanica. La
democratizzazione delle istituzioni politiche, dei media e della classe
dirigente ha dunque generato una sgermanizzazione dell’opinione
pubblica, nella quale è tutt’oggi diffuso un sentimento di aspra
diffidenza verso tutto ciò che sia riconducibile alla “sostanza
tedesca”. Soprattutto tra i giovani.
In assenza di un unico forte elemento, quello identitario, che funga da collante per l’intera collettività nazionale (in tedesco “
Volksgemeinschaft“,
una parola che genera ancora terrore) e che indichi gli obiettivi, per
lo meno morali, della nuova “nazione civile tedesca”, i governi hanno
agito in due direzioni: da un lato partecipando intensamente al processo
di integrazione europea, con il fine di creare una nuova identità
comunitaria nella quale sciogliere definitivamente la propria;
dall’altro facendo propri gli scopi, gli obiettivi e la sensibilità di
un’altra forte identità: quella ebraica. Di fronte ad un’Unione europea
in fase di vacillazione che chiama Berlino ad assumere un ruolo di
leadership egemonica al suo interno e genera così banali i paragoni con
il passato non è da escludere che la classe dirigente tedesca decida in
futuro di premere con minore intensità l’acceleratore in questa
direzione, aumentando invece il processo di identificazione nella causa
israeliana.
In un discorso tenuto alla
Knesset nel 2008
Angela Merkel
ha sottolineato l’esistenza di un “rapporto speciale” tra Germania e
Israele, affermando che i due Paesi “sono e resteranno sempre legati in
modo speciale dalla memoria della Shoah” e che la protezione della
sicurezza di Israele è iscritta nella “ragion di Stato” della Repubblica
Federale. Il cui governo ha mostrato particolare impegno nella
salvaguardia della sicurezza dello Stato ebraico, fornendogli
sistematicamente sommergibili e strumenti militari. Come conferma
Schuster, “nessun partito tedesco mette in dubbio le responsabilità
storiche della Germania verso Israele, il quale ha dunque una posiziona
particolare all’interno della politica tedesca”.
D’altro canto, invece,
la reale capacità di influenza di Berlino verso Israele è piuttosto limitata,
basti pensare che tutti gli appelli tedeschi alla tutela delle
popolazioni palestinesi sono sempre rimasti inascoltati. Questo rapporto
disequilibrato si è sviluppato all’ombra di un passato traumatico.
Secondo lo studioso
Felix Berenskoetter, la memoria
della Shoah “mette la Germania nelle condizioni di dovere riparare alle
azioni passate che non potranno mai essere perdonate, costringendola a
cercare di saldare un debito che non potrà mai essere saldato”.
Berenskoetter sostiene che ciò consenta alle èlites israeliane di
sfruttare il senso di colpa della Germania per imporre alle istituzioni
tedesche di non criticare le politiche di Israele.
Il governo di Angela Merkel ha in realtà criticato in alcune occasione quello di
Benjamin Netanjahu,
soprattutto in merito alle politiche di insediamento ebraico nei
territori palestinesi. La Cancelliera non ha però mai voluto mettere in
dubbio le responsabilità storiche della Germania. Quando il premier
israeliano le servì l’occasione per ‘scagionarsi’ parzialmente dalle
responsabilità tedesche dell’Olocausto,
affermando che il suo ideatore non era stato Hitler bensì il Muftì di Gerusalemme, la Cancelliera intervenne duramente, ribadendo e rivendicando al suo popolo la totalità e la titolarità delle colpe commesse.
Ad affrontare questa spinosa questione è stato anche un gruppo di
studiosi conservatori, guidati dal professore della università Humboldt
di Berlino
Ernst Nolte, che tentarono di rivalutare i
paradigmi con i quali i tedeschi affrontano la propria storia e il
proprio rapporto con il genocidio ebraico. Nolte affermò la
non-eccezionalità dei crimini tedeschi, suggerendo la comparazione con
altri stermini di massa, Pur non negando la natura criminale del
nazismo, che rimane un momento insopprimibile dell’identità tedesca,
egli cercò di rielaborare il trauma tramite inquadramenti
storico-politici. In un articolo pubblicato sulla
Frankfurter Allegmeine Zeitung
il professore ridusse l’unicità dello sterminio degli ebrei alle
“tecniche delle camere a gas”, ponendo la questione se “lo sterminio di
classe dei bolscevichi non sia il
priur logico e fattuale dello
sterminio di razza dei nazionalsocialisti?” Con questa operazione
scientifica Nolte non nascose mai di volere ricreare un rapporto
“normale” con il passato tedesco e con i suoi errori.
Ad attaccarlo fu il filosofo francofortese
Juenger Habermas, che sostenne invece
l’unicità dell’Olocausto.
Secondo lui le nuove generazioni di tedeschi sono corresponsabili di
quelle passate attraverso la memoria verso le vittime. Una memoria che
deve essere “dolorosamente consapevole” che furono i tedeschi con la
propria cultura a “generare quel contesto di vita” in cui Auschwitz fu
possibile. A questa memoria e a questa colpevolezza bisogna rimanere
eternamente legati, rendendola una propria tradizione, un filtro
attraverso cui passa una nuova consapevolezza storica e collettiva.
Secoondo Habermas l’Olocausto è una questione che non va affrontata
oggettivamente, prendendo in esame numero di vittime e tecniche di
tortura, bensì emotivamente. Questo perché
l’unicità dell’Olocausto è diventata parte dell’identità storica dei tedeschi,
anche degli incolpevoli di oggi. Della colpevole cultura tedesca non
rimare quasi nulla, se non la “memoria solidale” verso le vittime di un
evento irreparabile.
La tesi emotiva di Habermas ha trovato molto più spazio nel mondo mediatico tedesco rispetto agli studi di Nolte.
Gunter Grass,
uno dei più celebri scrittori del dopoguerra tedesco, si è spinto a
dire che “pensare alla Germania significa pensare ad Auschwitz”. Lo
stesso Grass, però, generò una aspra diatriba con la pubblicazione di
una sua poesia sulla politica nucleare israeliana (
Was gesagt werden muss).
Le polemiche che ne seguirono sono un chiaro esempio della complessità
che sottende il “rapporto speciale” tra Germania e Israele. Un rapporto
fondato sull’emotività che ha però forti coinvolgimenti politici. Resta
oggi da vedere se le critiche presenti all’interno di parte
dell’opinione pubblica tedesca a proposito delle politiche israeliane –
soprattutto a riguardo delle politiche di insediamento dei coloni –
spingerà il governo ad assumere posizioni più dure verso Israele. Che
rischierebbero però di riaprire ferite mai veramente guarite.
@luca_steinmann1
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