Gli incentivi disincentivano
di Giuseppe Gigliotti
Come da consolidata tradizione nel
conflitto arabo-israeliano, l'ennesima conferenza di pace sembra
ormai profilarsi all'orizzonte. E vi sono pochi dubbi che, come
quelle che l'hanno preceduta, anche tale iniziativa si risolverà
in un nulla di fatto. Ma, a dispetto delle interpretazioni
fortemente emotive date a questa vicenda, che in non poca misura
hanno contribuito a costruirne il mito d'irresolubilità, è mia
ferma opinione che il conflitto si sia di fatto già risolto,
ancorché nel modo peggiore per lo Stato ebraico. Essendo la
questione enorme per un singolo articolo, mi concentrerò su un
punto spesso trascurato nelle analisi italiane, ma che può da
solo spiegare il disastro in corso in Israele-Palestina: il
ruolo giocato dagli Accordi di Oslo
nell'esonerare Israele dai costi economici della sua
presenza nella West Bank.
Uno dei principali argomenti della
vecchia guardia pacifista è stato quello di ribadire il mantra
degli
enormi dividendi in termini economici, conseguenti alla
cessazione del conflitto. Secondo questa linea di pensiero,
Israele potrebbe garantirsi livelli di crescita eccezionali
dalla normalizzazione con il mondo arabo e musulmano, mentre la
creazione di un proprio Stato sovrano consentirebbe di porre
termine alla strutturale condizione d'inferiorità economica in
cui i Palestinesi stagnano dal 1948. Su questa linea di
pensiero, l'Unione Europea si è spinta a garantire alle due
parti uno status privilegiato in termini di accesso al mercato
comune qualora un accordo fosse siglato. Il problema di questa
visione sta nella sua incapacità
di prendere atto degli effetti negativi prodotti dagli accordi
di Oslo nell'ultimo ventennio. Lungi dal favorire una maggiore
propensione all'accomodamento, la struttura messa in piedi
a partire dagli anni Novanta
ha semmai contribuito a rendere le
parti in causa ancor meno accomodanti di quanto potessero essere
in precedenza. Infatti, come
le teorie economiche insegnano,
tra due parti in conflitto la volontà di perseguire la pace è
inversamente proporzionale al livello di soddisfacimento
dei bisogni essenziali. Maggiore è il secondo, minore è la
prima. Tale equazione ha avuto un peso centrale, nell'indurre
israeliani e palestinesi a tentare un accordo: ancorchè oggi
dimenticato, uno dei fattori che agevolarono l'avvio degli
accordi di Oslo fu non a caso il disastroso andamento economico
d'Israele e dell’OLP negli anni Ottanta. Lo Stato ebraico fu
colpito da una disastrosa recessione, mentre l'ambigua politica
di Yasser Arafat comportò un netto taglio nei generosi aiuti
finanziari sino a quel momento concessi dai Paesi Arabi al
movimento palestinese. Nessun dubbio che ambedue le parti in
causa furono indotte alla storica firma anche da altre ragioni;
ma è al contempo innegabile che la necessità di garantirsi aiuti
economici avesse giocato un ruolo primario in tale contesto.
Sennonchè, in assenza di un formale accordo di pace, il fiume di
denaro sborsato dai Paesi occidentali a partire dal 1991 ha
finito per produrre l'effetto opposto a quello inteso: lungi dal
rendere lo status quo insostenibile, ha semmai permesso ad
ambedue le parti d'arroccarsi sulle proprie posizioni. E
l'utilizzo del termine ambedue non è casuale. Sebbene in Israele
e nella comunità filo israeliana sia onnipresente l'idea che il
denaro occidentale abbia contribuito a minare la sicurezza
dello Stato ebraico, rafforzando le
posizioni assolutiste dei palestinesi, la realtà è ben
diversa. In una prospettiva complessiva, è infatti difficile
negare che Israele abbia beneficiato, in misura forse maggiore
dei suoi nemici, dalle ambiguità
del processo di pace. Ciò sotto diversi profili: ancorché
corrotta e sostanzialmente ostile alla presenza di un focolare
ebraico in Israele-Palestina, l'Autorità Palestinese ha però
consentito ad Israele di liberarsi del fardello più pesante
creatosi a seguito del suo ingresso in Cisgiordania nel 1967.
Sino al 1993, l'intera popolazione palestinese era sottoposta
alla diretta amministrazione militare israeliana, il che
implicava oneri economici sempre più gravosi, tenuto conto
dell'esplosione demografica conosciuta dalla comunità araba a
partire dagli anni Settanta (complice l'indubbio miglioramento
delle condizioni economiche e socio-sanitarie garantite dallo
Stato ebraico). Il sistema introdotto da Oslo comportò una
soluzione di lunga durata a questo dilemma, senza sacrificare in
alcun modo le aspirazioni israeliane sulla West Bank. La
creazione delle aree A e B comportò il trasferimento della quasi
totalità della popolazione civile palestinese sotto l'egida di
un'entità autonoma (l'Autorità Palestinese appunto), la cui
viabilità economica fu da Israele scaricata sulle spalle dei
paesi occidentali, mentre l'area C (comprendente le porzioni
economicamente più significative della West Bank) continua ad
essere sotto l'esclusivo controllo israeliano.
Le somme di denaro pubblico così liberate, unite al
prestito americano concesso nel 1991 quale condizione per la
partecipazione israeliana alla Conferenza di Madrid,
poterono essere utilizzate per finanziare l'alià degli
ingegneri e dei matematici sovietici, il cui apporto è stato
decisivo nel trasformare Israele nell' odierna economia ad alto
impatto tecnologico. Le successive misure israeliane hanno
contribuito al perfezionamento di tale sistema. La Barriera di
Separazione e la Legge sull'Ingresso e la Cittadinanza, seppur
presentate con l'intento di bloccare l'infiltrazione di
terroristi, hanno però anche permesso ad Israele di
regolamentare a sua discrezione i flussi d'ingresso della
manodopera palestinese nel proprio mercato, rimasti senza
controllo dal 1967 in poi. Ciò ha determinato lo strangolamento
dell'economia rivale (già minata dalla corrotta leadership di
Arafat), ed accresciuto in tal modo la pressione economica sui
donatori, senza comportare costi effettivi per lo Stato ebraico,
la cui economia ha al contrario conosciuto una straordinaria
crescita negli anni successivi. Nè la promessa di un
innalzamento dei legami economici con l'Occidente legato ad un
futuro accordo di pace può allo stato attuale sortire il benchè
minimo effetto su Israele, essendo i contro infinitamente
superiori ai pro. L'acquisizione di uno status di partner
semiufficiale dell'UE, e l'istituzione di un regime di free
visas con gli States od il Canada imporrebbe difatti a
Gerusalemme una revisione del proprio sistema di concessione dei
visti lavorativi, che allo stato odierno rende fortemente
difficoltoso lavorare in Israele per un non ebreo che non sia
cittadino. Ma ciò andrebbe contro il principio cardine secondo
il quale l'economia israeliana deve servire ad attrarre
esclusivamente ebrei. E poiché a seguito delle recenti riforme
legislative compiute in Spagna e Portogallo la quota di
potenziali detentori di doppi passaporti è aumentata tra la
popolazione ebraica, è evidente che allo stato odierno gli
incentivi ad un mutamento in tale senso hanno subito
un’ulteriore riduzione. In
definitiva, l'idea che ipotetiche concessioni economiche possano
indurre Israele a siglare un accordo di pace sono destinate ad
un completo fallimento, per il semplice motivo che lo Stato
ebraico ha oggi tutto da perdere e nulla da guadagnare da un
mutamento dello status quo. Questo non implica però un esonero
dei Palestinesi dalle proprie responsabilità. Come attestato da
un recente sondaggio compiuto dall'Università Al Najah di Nablus,
il 73,7 per cento dei Palestinesi della West Bank sarebbero
contrari persino ad uno stato bi-nazionale per arabi ed ebrei.
Ma, se la ragion d'essere d'Israele
sta nel suo essere la casa nazionale del popolo ebraico, è
allora evidente che la situazione venutasi a creare negli ultimi
due decenni rappresenta una catastrofe soprattutto per il
progetto sionista. Questo perché, a dispetto delle continue
buone intenzioni manifestate dall'Occidente, è ben chiaro che
nessun governo israeliano avrà mai il coraggio di abbandonare
quel che viene ritenuto da un numero crescente di israeliani
epicentro del patrimonio storico e religioso del popolo ebraico.
In definitiva, uno Stato con potenziale maggioranza
arabo-palestinese, incubo della dirigenza sionista sin dai primi
giorni dello Yishuv, è di già una realtà consolidata. Ed i
progetti della destra israeliana, quali il Piano Bennett di
annettere l'intera area C, segregando i Palestinesi in cantoni
autonomi, esprimono solo la folle convinzione, sempre più
diffusa nel pubblico israeliano, che il problema palestinese
possa essere scaricato per sempre sulle spalle dei contribuenti
occidentali.
Dinanzi a questo stato di cose è
allora necessario per i paesi occidentali assumere un nuovo
ruolo, né attivo o passivo, ma semplicemente neutrale.
Perseguire una politica di non ingerenza diplomatica nel
conflitto tra i due popoli dovrebbe divenire il nuovo approccio
alla questione. E in questo contesto, l'immediata sospensione di
ogni aiuto economico alle aree palestinesi dovrebbe costituire
la prima mossa. Israele è ormai economicamente in grado di
sostenere i costi della sua permanenza nella West Bank, mentre
gli attuali livelli di donazione non sembrano sostenibili nel
medio-lungo termine, alla luce della recessione economica in
corso nel mondo occidentale. In definitiva, salvare chi non
desidera essere salvato non è atteggiamento saggio, né tanto
meno realistico. Ed è giusto da parte dell'Occidente lasciare
che israeliani e palestinesi diano libero corso alle proprie
scelte, fossero anche destinate a condurre a spaventose
catastrofi.
Giuseppe Gigliotti
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