Fulvio Scaglione: Autobomba, la morte a domicilio





Pare che la prima autobomba della storia fosse una carrozza a cavalli. Quella che nel settembre 1920 l’anarchico italiano Mario Buda, già muratore, operaio in una fabbrica di cappelli, giardiniere e calzolaio, sistemò a Manhattan all’angolo di Wall Street con Broad Street. Sacco e Vanzetti erano stati arrestati quattro mesi prima. Buda voleva vendicarli attentando alla sede della banca J.P. Morgan. La carrozza era imbottita di esplosivo e di frammenti di ferro e lungo le strade erano stati sparsi volantini con la scritta: “Liberate i prigionieri politici o morirete tutti”. L’esplosione uccise 40 persone e ne ferì più di 200. Buda fuggì in Messico, poi tornò in Italia. Nel 1927 finì al confino per “attività sovversive”. Morì nel 1963 nella natia Savignano (Forlì-Cesana).
Questa breve storia della prima autobomba serve a riportarci in Iraq. Chi conosce Baghdad sa che cosa voglia dire un attentato di quel genere, come quello che nei giorni scorsi ha falciato più di 200 persone (tra le quali decine di bambini) in un quartiere come Karrada, che pullula di negozi e caffè e mercati. Un’area che già ai tempi di Saddam Hussein era considerata la più vivace e piacevole di Baghdad. Soprattutto se, come nell’ultimo attentato, un suicida si incarica di portare l’esplosivo nel luogo più affollato.
Dai tempi di Buda in poi, l’autobomba ha avuto un grande successo tra i terroristi e i criminali di ogni parte del mondo. Fu usata in Palestina negli anni Quaranta, in Viet Nam negli anni Cinquanta, in Algeria e in Italia negli anni Sessanta,  in Irlanda negli anni Settanta, in Libano negli anni Ottanta, in Gran Bretagna e negli Usa negli anni Novanta. Poi in America Latina, in Russia, in Turchia fino ai giorni nostri.
In Iraq, dal disastro anglo-americano del 2003 in avanti, i numeri sono diventati agghiaccianti. Le statistiche sono forzatamente imprecise ma trasmettono tutte lo stesso messaggio. Secondo fonti americane, tra il luglio 2003 e il giugno 2005 morirono quasi 10 mila iracheni a causa di auto imbottite di tritolo e fatte esplodere. Nell’autunno 2005 esplosero 140 autobomba al mese, in Iraq, e 13 nella sola Baghdad nella sola notte di Capodanno. Tra il 2003 e oggi, secondo Iraq Body Count, gli atti di terrorismo hanno ucciso circa 200 mila iracheni, mentre altre ricerche (per esempio quelle della rivista inglese Lancet) alzano la soglia fino a 600 mila morti. E il Terrorism Index 2015 ci ricorda che ancora nel 2014 l’Iraq era il Paese al mondo con il maggior numero di civili uccisi da atti di violenza.
In una città come Baghdad,  enorme, popolosa (circa dieci milioni di abitanti, ormai), diventata per forza di cose (dopo la caduta di Mosul e la semi-indipendenza del Kurdistan) una specie di città-Stato sciita che attira tutti i commerci e gli affari del Paese, è difficilissimo intercettare una singola automobile che porta un carico di morte. Ma anche per questo occorre capire che la battaglia decisiva, oggi, si combatte proprio tra Iraq e Siria.
L’Isis, come Al Qaeda prima di lui, non è un gruppo: è un progetto. Un progetto dell’estremismo sunnita per disarticolare gli Stati sciiti o controllati dagli sciiti. Che una volta sia affidato ad Al Qaeda e un’altra all’Isis, e domani magari a un altro gruppo con un altro nome e un altro leader, dipende solo dalle circostanze e dalla tattica di volta in volta ritenuta più utile. Per raggiungere questo scopo non c’è crudeltà o efferatezza vietata.  Proprio mentre ancora piangiamo gli imprenditori italiani massacrati in Bangladesh, e proprio perché li piangiamo, dovremmo renderci conto che la vera battaglia contro la belva terroristica si vince o si perde nei deserti e nelle città dell’Iraq e della Siria.
Per vivere più tranquilli qua, dobbiamo mandare a monte quel progetto là. Non c’è via d’uscita o scorciatoia. Se non riusciremo a prevalere dove si combatte la battaglia decisiva, non riusciremo nemmeno a garantirci la tranquillità cui aspiriamo. Gli attentati in Occidente, per il terrorismo sunnita, sono dei colpi pubblicitari: colpisci Bruxelles o Londra o Madrid e se ne parla per dieci anni. Sanno che non potremo chiudere più di tanto le nostre società che, oltre un certo livello di controlli, si incepperebbero. Quindi sano che di tanti in tanto potranno tornare a colpire. Ma è in quelle sabbie lontane che si decide se colpirci sarà loro ancora utile.







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