Fulvio Scaglione : Ma senza una linea comune si perde la guerra al terrorismo

 
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Un filo rosso lega le stragi di Dacca e Baghdad, finché la comunità internazionale non trova la compattezza e la volontà di intervenire contro chi si fa sponsor del terrorismo il contrasto non funzionerà.
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A dispetto delle differenze tra Iraq e Bangladesh, che sono molte e importanti, c’è un filo rosso che lega la strage degli imprenditori italiani a Dacca a quella contemporanea dei cittadini sciiti a Baghdad. L’aspetto più evidente è questo: quanto più perde terreno negli scontri campali, tanto più l’Isis sfrutta l’arma crudele degli attentati per segnalare di essere ancora forte e vitale. Un messaggio interno, per i militanti che hanno bisogno di essere galvanizzati, e anche esterno, per intimorire i nemici colpendoli, per così dire, alle spalle. Ma questa è la tattica del terrorismo.

Il punto cruciale è la strategia, che si replica identica in ogni parte del mondo. In due fasi. La prima: Al Qaeda o l’Isis o una qualunque delle infinte sigle dell’estremismo armato islamico si insedia nella crisi già aperta di un determinato Paese. Successe in Afghanistan all’epoca dell’invasione sovietica e via via fino ai giorni nostri come nella Somalia della disgregazione statuale. Nel Mali dell’autonomismo tuareg come nell’Iraq post-invasione americana. Nella Nigeria del dualismo economico tra musulmani e cristiani come nella Libia bombardata da Francia e Gran Bretagna o nella Siria coinvolta in una delle tante Primavere.

La seconda: allargare le lacerazioni del tessuto politico e sociale fino a smembrare lo Stato o, almeno, renderlo di fatto ingovernabile. Da questo punto di vista, quindi, che il vero Isis faccia strage di sciiti a Baghdad approfittando del comprensibile revanscismo sunnita o un gruppo di affiliati locali ammazzi un gruppo di stranieri speculando sulla protesta sociale, non fa molta differenza. L’idea è la stessa: colpire una linea di faglia (in Iraq le rivalità settarie, in Bangladesh un settore vitale dell’economia) per far crollare tutto. Questa caratteristica crea grandi problemi alla cosiddetta “comunità internazionale”, che tende a badare al quadro generale sottovalutando l’importanza delle ferite che ogni specifico Paese ha bisogno di curare. Ferite che sono il terreno di coltura del terrorismo.

Ma il problema dei problemi, anche alla luce dei massacri di Dacca e di Baghdad, è questo: checché se ne dica, il terrorismo islamico non è la priorità di detta “comunità internazionale”. È una piaga, un pericolo, una minaccia. Ma non è “la” minaccia”. Almeno, non per tutti. Lo abbiamo visto con chiarezza in due eventi recenti. Le indagini dopo l’attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul (44 morti) sembrano aver chiarito che lo stratega del gruppo terrorista sia Ahmed Shataev, un ceceno ben noto agli specialisti dell’intelligence. Shataev fuggì dalla Russia dodici anni fa perché ricercato per atti di terrorismo. Nel 2011 fu arrestato in Bulgaria ma non potè essere estradato in Russia, come da Mosca appunto richiesto, perché in Austria gli era stato concesso lo status di rifugiato politico. È chiaro che se la stessa persona è un terrorista in una parte di mondo e un perseguitato nell’altra, di strada nella lotta contro lo stragismo se ne fa poca. Il secondo episodio è quello che ha riguardato direttamente l‘Italia nei giorni scorsi. Al momento di assegnare i due seggi di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il nostro Paese, che era favorito, è stato “retrocesso” e costretto a dividersi il seggio (un anno a testa) con l’Olanda. Ciascuno può giudicare, anche al netto della strage di Dacca, se con il Mediterraneo diventato cimitero di profughi, il Medio Oriente in fiamme e il Nord Africa (dalla Libia alla Tunisia all’Egitto) pieno di tormenti, tre dei quattro anni di presenza europea nel Consiglio potevano ragionevolmente essere assegnati a Paesi nordici (Svezia e, appunto, Olanda) e uno solo a un Paese del Sud continentale (l’Italia).

D’altra parte, che il terrorismo islamico non sia la priorità di tutti viene dimostrato anche dal lassismo con cui ci si rivolge ai Paesi e agli ambienti che sono i primi responsabili del finanziamento degli islamisti radicali. Pensiamo al Bangladesh: da anni molti musulmani locali denunciano la progressiva infiltrazione dei predicatori wahabiti, forti dei petrodollari del Golfo Persico e sempre più inseriti nel sistema scolastico e dell’educazione religiosa. Anche in questo caso, come già nel caso del Pakistan e di altri Paesi dell’Asia, nulla è stato fatto per parare il colpo.

Come nulla o troppo poco si fa per ridurre il fiume di quattrini che da donatori pubblici o privati e in modo più o meno palese continua a scorrere dalle monarchie del Golfo Persico verso la galassia dell’islam radicale. L’Occidente sta perdendo la guerra contro il terrorismo: dal 2000 a oggi, le vittime di attentati e kamikaze sono aumentate di nove volte. E la sta perdendo proprio perché non trova la compattezza e la volontà di intervenire contro chi del terrorismo si fa sponsor. Gli esempi sono infiniti, dai viaggi d’affari dei primi ministri occidentali in Arabia Saudita e Qatar alle relazioni pericolose dei vertici della politica americana. Come un “caso Regeni” moltiplicato decine di migliaia di volte, ma di cui preferiamo tacere.

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