Fulvio Scaglione : Il presidente Usa? Lo sceglie Putin



Per il senatore John Mc Cain, già rivale di Barack Obama nella corsa alla presidenza del 2008, la Russia non è che “una pompa di benzina travestita da Stato”. Allora spiegateci perché, ora che la corsa 2016 alla Casa Bianca entra nel vivo, i…
occhidellaguerra.it/il-presidente-…|Di Fulvio Scaglione

Per il senatore John Mc Cain, già rivale di Barack Obama nella corsa alla presidenza del 2008, la Russia non è che “una pompa di benzina travestita da Stato”. Allora spiegateci perché, ora che la corsa 2016 alla Casa Bianca entra nel vivo, i candidati Clinton e Trump e i loro collaboratori parlano assai più di Russia che di Stati Uniti.
Ha cominciato Hillary Clinton. Wikileaks ha sparato in Rete venti mila mail del Comitato Nazionale Democratico (CND) dalle quali emerge senza ombra di dubbio che il partito, durante le primarie democratiche, non è mai stato imparzialmente a vedere chi tra la Clinton e Sanders avrebbe raccolto il maggior numero di delegati ma ha attivamente lavorato, d’intesa con lo staff della Clinton, per favorire lei e danneggiare Sanders. Un comportamento obbrobrioso dal punto di vista morale e pure illegale, di cui la Clinton era al corrente. Al posto di andare a nascondersi su Marte, i dirigenti democratici hanno silurato Debbie Wasserman Schultz, presidente del CND. E madama Clinton, invece di vergognarsi, ha prontamente accusato la Russia di aver hackerato il sito del Partito democratico.
Poi è arrivato lui, Barack Obama. Il quale ha ripreso la questione Wikileaks alludendo ai soliti servizi segreti del Cremlino (che avrebbero trafugato le mail e poi le avrebbero passate al sito di Julian Assange) e dicendo che “è possibile che Vladimir Putin preferisca il repubblicano Donald Trump e una presidente democratica come Hillary”. Facendo quindi capire che anche per il premio Nobel per la Pace il problema non è il contenuto delle mail (e cioè che la corsa alla candidatura democratica era corrotta e taroccata fin dall’inizio) ma l’identità di chi le ha rivelate al mondo.
Per concludere in bellezza è arrivato, sul fronte repubblicano, Donald Trump. Lui, come al solito, ha fatto i fuochi artificiali. Prima ha chiesto ai russi di trovare e diffondere le 30 mila email che la Clinton, quand’era segretario di Stato, fece transitare sui suoi server privati e poi fece sparire (Il tweet di Trump: “If Russia or any other country or person has Hillary Clinton’s 33,000 illegally deleted emails, perhaps they should share them with the FBI!”), poi ha detto papale papale che le doti di leadership di Putin sono superiori a quelle di Obama. Il che, fra parentesi, è quello che pensano quasi tutte le persone che sotto il cappello hanno qualcosa oltre ai capelli.
Insomma, la pompa di benzina travestita da Stato è accusata di stravolgere la corsa alla Casa Bianca e nello stesso tempo chiamata a dipanare lo scandalo delle mail trafugate e cancellate che potrebbero distruggere i sogni presidenziali della Clinton e proiettare altre ombre su Obama e la sua gestione della presidenza. Se Putin è lucido e cinico un decimo di quello che sembra, si starà schiantando dalle risate in uno dei saloni del Cremlino, sotto l’occhio perplesso delle guardie del corpo.
Tutto questo parlare di Russia è un segnale. In primo luogo di disperazione. Il vero problema di questa campagna elettorale è che si risolve nel confronto tra un dilettante di successo come Trump e una dilettante d’insuccesso come la Clinton, il cui massimo risultato, in quattro anni passati a dirigere la diplomazia Usa, è stato distruggere la Libia e ridere alla notizia della morte di Gheddafi. Questo è il succo politico che repubblicani e democratici sono riusciti a spremere dalla polpa della più grande potenza economica, militare, tecnologica e culturale del mondo. Del Paese più multietnico del pianeta. Per dirne una: ci sono circa 5.500 think tank o istituti di ricerca nel mondo. Di questi, 1.500 sono nei soli Stati Uniti e di essi 900 sono stati fondati negli ultimi trent’anni. Questo colossale sforzo di interpretazione della realtà contemporanea e del mondo ha prodotto solo Clinton e Trump? Non è preoccupante?
Tutto questo parlar di Russia, in tempi politicamente “normali”, risponde a un preciso bisogno politico. Nel 1989 Georgyi Arbatov, consigliere diplomatico di Mikhail Gorbaciov, rivolse agli americani la famosa frase: “Vi giocheremo il peggiore di tiri, vi priveremo del nemico!”. Ma senza un nemico la superpotenza non può stare. Come giustificare il desiderio di invadere l’Iraq senza la minaccia delle (inesistenti) armi di distruzione di massa di Saddam? Come giustificare le vendite di armi ai Paesi del Golfo, che le passano poi all’Isis e agli altri gruppi, senza la minaccia dell’Iran? Come spiegare lo spiegamento del sistema di missili chiamato “scudo stellare” in Polonia e in Romania, o l’investimento di 5 miliardi di dollari per provocare un colpo di Stato in Ucraina, senza tirare in ballo l’imperialismo russo?
Come ha scritto Pierre Conesa, ex alto funzionario del ministero della Difesa di Francia, nel suo bel libro intitolato La fabrication de l’ennemi (La fabbricazione del nemico), il nemico funge “da ansiolitico per le nostre angosce collettive”. In poche parole, è uno strumento di governo delle masse. Un narcotico. E di certo non se ne servono solo gli americani. Le autorità francesi hanno cominciato a gridare “Isis, Isis!!!” dopo la strage di Nizza perché non potevano permettere che saltassero fuori gli immondi e dilettantistici pasticci che avevano combinato nel gestire la notte del 14 luglio, festa nazionale.
Ma questi della corsa alla Casa Bianca non sono tempi normali. Sono tempi isterici per i politici Usa e quindi si parla di Russia in modo isterico. Davvero Obama, la Clinton, Trump e i loro collaboratori non capiscono che gli Usa, il Paese che ha 17 (diciassette) agenzie di sicurezza e che prevede di spendere, nel 2017, mille miliardi di dollari per mantenerle e tenerle operative, non può permettersi di temere gli hacker russi senza far loro una enorme pubblicità? O tirare in ballo i servizi segreti del Cremlino senza ridicolizzare i propri? C’è un enorme bisogno di America, nel mondo. Ma non di questa.

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