Francesco Martone : le parole non bastano più
Come
spesso mi accade a prima mattina, è con il risveglio che tra sogni
mezzi fatti e mezzi ancora da fare, sinapsi che si rincorrono e giocano
al nascondino, memorie del giorno precedente e goffi tentativi di
pianificare quello che viene, un sorso lungo di caffé nero bollente
(rigorosamente pestato nella Bodum d'ordinanza), lettura di notizie
online, insomma è in quella fase liminale tra sonno e risveglio che
nella testa mi si ricompongono eventi, parole, informazioni, dati, che
letti da sé appaiono sconnessi e poi come per incanto si ricompongono a
formare un'intuizione, un pensiero.
Ieri ho ascoltato con attenzione le
parole di alcuni relatori intervenuti all'importante convegno sui 40
anni della Carta di Algeri (oggi la seconda parte) si parlava di popoli,
diritti dei popoli, di migranti, rifugiati, Si parlava e non solo, le
parole erano la traduzione verbale di storie profonde di impegno, dalla
ricerca e l'analisi giudirico-legale, al sostegno concreto "sul campo".
Parole dense di corpo, di storia e di storie. Non quelle parole che
ormai accompagnano retoricamente l'ennesimo naufragio, crimine contro
l'umanità.
Ripensavo a quelle parole, all'amara constatazione che i
diritti dei migranti e dei rifugiati non trovano cittadinanza nelle
agende della politica istituzionale, ripercorro le immagini di Via Cupa,
a Roma, delle centinaia di esseri umani accatastati in una stradina a
ridosso del Verano e della Stazione Tiburtina. Alla richiesta pressante
ed urgente di viveri e medicinali dei volontari dl Baobab Experience.
Concretezza che annega nel mare delle parole, quelle di circostanza o
quelle rituali, quando si parla di migranti, di mobilità umana. Al fiume
di parole spese sull'opera di Christo, la passerella che dovrebbe
simboleggiare la capacità di camminare sulle acque, la mobilità umana.
Alle solite parole che " ma dei morti ammazzati non in Occidente non
gliene frega a nessuno", e giù a battersi il petto, di fonte alle 200
vittime sacrificali della follia del DAESH a Bagdad o la decina di morti
ammazzati a Dacca. Parole che si ripetono quasi compulsivamente, "Je
suis Charlie, mais pourquoi pas Baghdad? Ou Dakha?" Le parole, disse
credo Walter Benjamin, ad un certo punto perdono di significato,
mancano, vengono meno. Ecco, forse oggi questo è il punto: le parole non
solo non bastano, ma sono cadute in obsolescenza. Quelle parole che
sanno di "paternalismo", di spocchiosa supponenza, di miserevole
compassione, e quelle che a fiumi cercano di decodificare il fenomeno,
tradurlo in "issue" più o meno utile alla circostanza o al rating del
consenso.
O tema di dibattito, ricerca, analisi, produzione culturale o
visuale. Insomma un argomento di elaborazione e conversazione, una
tematica, un copione, nulla più, e per di più ormai in "overkill" ,
stato di utilizzo eccessivo al punto da renderlo inutile, a produrre
assuefazione. Sul tema dei desaparecidos in mare, delle tragedie di chi
si incammina su un percorso migratorio, per desiderio o necessità, forse
troppo si è parlato, forse quelle parole utilizzate o per mettere a
bada i nostri sensi di colpa o per prefigurare interventi salvifici, non
bastavano allora. Ed oggi sono obsolete. Non "Basta la parola" per
parafrasare un refrain di un vecchio spot di Carosello - si perché a
prima mattina riaffiorano chissà da dove anche memorie antiche, si sa
con l'avanzare degli anni la memoria di lungo periodo prende il
sopravvento.
E la memoria di lungo periodo mi ricorda quando adolescente
mi trovai , mediaticamente, di fronte alla tragedia dei "boat people"
in Asia. Gente che scappava dalla guerra. Ad un certo punto a casa si
pensò pure di adottarne uno, Non se ne fece nulla, però quel giorno,
decisi di distruggere tutti i miei soldatini di plastica, e le mie armi
giocattolo, le riviste di aerei - a quell'età ti viene la passione per
gli aeroplani e per le armi, ma dopo le immagini del Vietnam, Da Nang,
Saigon, le corrispondenze via satellite in bianco e nero. della guerra
del Kippur iniziai a dare a quei giocattoli un altro significato. "Non
posso giocare alla guerra assieme al bimbo vietnamita, quello scappa
dalla guerra. Per lui mica è un gioco". Dell'adozione non se ne fece
nulla, ma allora iniziò la mia conversione al pacifismo ed
all'antimilitarismo. Non bastano più le parole.
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