Cosa sta succedendo in Sud Sudan?

 

  Secondo giorno di cessate il fuoco a Juba, capitale del Sud Sudan, dopo quattro giorni di scontri durissimi iniziati lo scorso 8 luglio. La fragile tregua sembra reggere ma la situazione rimane tesa, mentre si aggrava l’emergenza umanitaria.

Chi sta combattendo in Sud Sudan e perché?

Indipendente dal 9 luglio del 2011, dopo due guerre civili combattute con Karthoum, il Sud Sudan è il Paese più giovane al mondo, con undici milioni di abitanti – un terzo dei quali a rischio sicurezza alimentare – e un’economia dipendente quasi esclusivamente dall’estrazione di greggio. Già nel periodo immediatamente successivo all’indipendenza, era emersa nel Paese la rivalità tra il presidente Salva Kiir Mayardit, alla guida del Movimento per la Liberazione del popolo sudanese (Splm), sostenuto dai militari di etnia dinka, e il suo vice Riek Machar, al quale sono fedeli i militari di etnia nuer. Nel 2013, Kiir cerca di prendere in mano la situazione allontanando dal governo il vicepresidente Machar. Si infiamma così un conflitto che durerà per trenta mesi, fra i militari fedeli a Kiir, e la parte dell’esercito di etnia nuer, fedele a Machar, accusata di preparare un colpo di Stato. Anche gli attori regionali si schierano: l’Uganda con Kiir e il Sudan con Machar. Nel 2015, dopo le pressioni della comunità internazionale, arriva un accordo di pace e si costituisce un governo di transizione al quale partecipa anche Machar, che nell’aprile del 2016 riottiene così la carica di presidente. Ma le tensioni, evidentemente, non sono state risolte. L’8 luglio scorso, infatti, alla vigilia del quinto anniversario per l’indipendenza del Paese, una pattuglia dell’esercito è stata assalita nel sobborgo di Gudele da un gruppo di militari appartenenti alla fazione all’opposizione, quella capitanata da Machar.

Le truppe di Machar si ritirano all’esterno della capitale

In poche ore gli scontri hanno infiammato diverse zone della capitale, provocando circa 300 morti, fino all’annuncio, arrivato lunedì, da parte del presidente Salva Kiir, di un cessate il fuoco unilateralee dell’apertura di un nuovo negoziato con Machar. Il vice presidente e le sue truppe si sono quindi spostate momentaneamente fuori città per assicurare il rispetto del cessate il fuoco ed evitare una nuova escalation. Il portavoce dell’opposizione, James Gatdet Dak, citato dall’emittente Bbc ha infatti dichiarato che le forze fedeli a Machar hanno lasciato il “quartier generale per evitare ulteriori scontri”, e che il vice presidente e i suoi uomini si trovano “nei pressi della capitale”. Da qui Machar continua ad invocare l’intervento di una forza militare esterna per creare una zona cuscinetto a Juba. Condanne per la nuova escalation della violenza sono arrivate dal governo del Sud Africa e da quello degli Stati Uniti, che nella giornata di lunedì ha ordinato lo sgombero del personale diplomatico non addetto all’emergenza.

Si aggrava la situazione umanitaria

Intanto il numero delle persone, in gran parte donne e bambini, che sono fuggite in massa dai quartieri colpiti dagli scontri tra le due fazioni è salito, secondo i nuovi dati diffusi oggi dalle Nazioni Unite, a 42 mila. Alcuni tra i profughi avrebbero però già fatto ritorno nelle proprie abitazioni, mentre altri sarebbero stati accolti in diversi siti nei pressi della capitale, tra cui alcune chiese, la sede del World Food Programme e quella della missione Onu nel Paese. L’Unhcr ha invece lanciato un appello alle parti in conflitto, affinché consentano il passaggio sicuro delle persone in fuga dagli scontri, e ai Paesi confinanti, perché mantengano le frontiere aperte ai profughi. Di situazione umanitaria  “grave”, ha parlato il portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, Stephane Dujarric, mentre per ora sono almeno sei i Paesi che hanno avviato operazioni di rimpatrio dei propri cittadini. Tra questi ci sono Uganda, Regno Unito, Germania, Giappone, India e anche l’Italia che oggi con un volo dell’Aeronautica militare ha riportato a casa trenta nostri connazionali. I trenta italiani, ha comunicato la Farnesina, hanno raggiunto la base militare di Gibuti, per poi proseguire da qui il viaggio verso le rispettive destinazioni.

Pechino, il petrolio e i caschi blu

Negli scontri a Juba sono morti anche due peace keeper cinesi, e altri 8 sotto rimasti feriti gravemente. I militari cinesi inquadrati nella missione Onu in Sud Sudan (Unmiss) sono circa 700. Il contributo cinese alle missioni di peacekeeping dell’Onu è andato crescendo sensibilmente negli ultimi anni, fino a raggiungere la cifra di 3079 uomini. Il continente africano, in particolare, è stato interessato dall’invio dei caschi blu di Pechino, che sono operativi in Mali, Sahara Occidentale, Congo, Liberia e Costa d’Avorio, ma soprattutto in Sudan e in Sud Sudan. Non è un caso che il gruppo più consistente di fanti inviato dalla Cina sia operativo, dal 2014, proprio in questo Paese. Gli interessi della Cina nel continente africano sono molti, e questo non è un mistero: da anni ormai Pechino ha conquistato l’Africa con il suo modello di sviluppo alternativo a quello occidentale, basato sulla non ingerenza negli affari interni dei Paesi. Uno degli Stati africani in cui la Cina è radicata da più tempo è proprio il Sudan. Prima dell’indipendenza di Juba, infatti, Khartoum era il terzo partner commerciale di Pechino ed è qui che la China National Petroleum Corporation estraeva direttamente il 15% della sua produzione totale estera. Tra il 2011 e il 2012, secondo i dati dell’Ispi, le esportazioni di petrolio verso la Cina dal Sudan e dal Sud Sudan, dove si trovano la maggior parte dei giacimenti, sono crollate proprio a causa del cambio della situazione politica. Molti analisti hanno quindi interpretato l’accresciuta presenza militare di Pechino inquadrata nelle missioni Onu, in Sud Sudan, ed in generale nel continente africano, come lo strumento diplomatico di cui la Cina si sta avvalendo per difendere gli importanti investimenti delle compagnie petrolifere, segnando un cambio di marcia sul principio della non interferenza che ha guidato la politica estera cinese sin dagli anni ‘50. È per questo che la crisi in Sud Sudan potrebbe essere un primo e importante banco di prova soprattutto per la diplomazia del presidente Xi Jinping.


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