Ugo Tramballi :Caso Regeni, l’inspiegabile silenzio dei docenti di Cambridge



Perché il silenzio? Perché non contribuire concretamente a quella richiesta che non è solo uno slogan, invocata dagli stessi professori di Cambridge: verità per Giulio Regeni. Mandanti e assassini sono nascosti nel regime egiziano, quello sì omertoso. Ma chiunque sappia qualcosa di possibilmente utile ha il dovere di aiutare. «Quando mandiamo all’estero un nostro dottorando in ricerca abbiamo sempre una procedura da rispettare: ci deve essere un accordo fra il supervisore che ha mandato lo studente e quello che lo ospita», dice il professor Maurizio Fermeglia, dal 2013 Magnifico rettore dell’Università di Trieste. «Io ancora non ho ben capito se per Giulio ci fosse un riferimento scientifico che si occupasse di lui all’American University del Cairo».
Fermeglia è un ingegnere chimico e insegna nanotecnologia. Ma da rettore ha mandato centinaia di studenti di discipline diverse in giro per il mondo. E comunque la disciplina non fa differenza. «Se mando in Germania uno studente in nanotecnologie – spiega Fermeglia – mi aspetto che in laboratorio il supervisor di quel paese gli spieghi dov’è la nitroglicerina e gli chiarisca i casi estremi in cui può essere usata. Il laboratorio di Giulio era il Cairo: gli è stato spiegato con cura dov’era la nitroglicerina al Cairo? Se non lo hanno fatto, perché?»
 Lei ha una risposta? Forse a qualcuno conveniva che Giulio sapesse poco dei pericoli della sua indagine. Hanno cercato di utilizzare la curiosità che ha sempre uno studente di quell’età sul campo. Hanno abusato dell’esuberanza giovanile. Conosco bene questa esuberanza fra i miei studenti: Giulio era di questi luoghi e aveva fatto il Liceo a Trieste.
Forse nessuno poteva immaginare che Giulio potesse fare quella fine.
No, ma era noto che il Cairo fosse un luogo pericoloso. Non sono tornato in Egitto nell’epoca del presidente al Sisi, ma ci sono stato negli anni di Mubarak e dei Fratelli musulmani. Tutti mi dicevano di stare attento con chi parlavo per strada perché la città era piena d’informatori. Il compito di Giulio era proprio di andare a intervistare la gente per strada, ovunque.
Secondo lei per quale ragione un’università prestigiosa come Cambridge si è rifiutata di aiutare i nostri inquirenti?
Non c’è nessuna ragione plausibile nel non rispondere al procuratore di un paese amico che chiede informazioni su un caso di questo tipo. Io come rettore non avrei esitazioni. A meno che non sia il mio ministro degli Interni che mi chiede di non farlo, invocando il segreto di Stato. Ma non mi sembra questo il caso.
I dinieghi dei professori inglesi di Giulio sollevano fatalmente inquietanti sospetti. È possibile che Giulio conducesse indagini segrete?
Per quella che è la mia competenza no: i dottorandi hanno bisogno dell’evidenza pubblica della loro ricerca, questo è fondamentale. A meno che non ci siano di mezzo segreti industriali. Ma Giulio non si occupava di nanotecnologia.
E dunque?
Torniamo alla leggerezza dei supervisori inglesi di Giulio. L’aveva un interlocutore al Cairo come prevede ogni parametro universitario o era abbandonato a se stesso? È questo che non ho ancora capito dopo tanti mesi. Temo che in modo molto opportunistico sia stata creata una zona grigia per utilizzare le curiosità di Giulio.
Dopo la morte di Giulio le due docenti che lo seguivano da Cambridge avevano diffuso una petizione. Lei l’ha firmata?
No, come tanti altri docenti italiani.
Perché?
C’erano solo cinque o sei righe dedicate a Giulio. Tutto il resto era un documento politico contro al Sisi. Personalmente lo condividevo anche, ma mi è sembrato che non fosse quello il caso, che occorresse concentrarsi su ciò che era accaduto a Giulio. Anche in quell’occasione avevano pensato più alla loro causa politica che alla tragedia del loro studente.

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