ISRAELE/PALESTINA. Onu: “La revoca dei permessi è una punizione collettiva”

 

 

 

ISRAELE/PALESTINA. C’è qualche speranza per l’iniziativa di pace francese?






Roma, 10 giugno 2016, Nena News – L’attacco a colpi di arma da fuoco che mercoledì sera ha ucciso quattro israeliani nel centro di Tel Aviv ha provocato un’escalation della tensione che sta colpendo i palestinesi residenti nei Territori Occupati. La prima misura assunta dal governo di Tel Aviv è stata la sospensione dei permessi di ingresso in Israele per 83mila palestinesi autorizzati ad attraversare un checkpoint militare per entrare in territorio israeliano.
Una punizione dura se si tiene conto che molti avevano ottenuto il permesso in occasione del mese sacro musulmano appena cominciato, il Ramadan. Questa mattina solo 7mila palestinesi della Cisgiordania sono stati autorizzati ad entrare a Gerusalemme. E nella moschea di al-Aqsa l’ingresso è stato consentito solo agli uomini con più di 45 anni e alle donne di ogni età. In migliaia sono rimasti bloccati ai checkpoint.
Nelle stesse ore Israele annunciava la chiusura militare di Cisgiordania e Gaza fino a domenica sera, eccezion fatta per i casi umanitari e le emergenze mediche. La misura ha sollevato le critiche delle Nazioni Unite che hanno definito la sospensione degli 83mila permessi una forma di punizione collettiva, vietata dal diritto internazionale. A dirlo è Zeid Ra’ad al Hussein, alto commissario Onu per i diritti umani: la revoca dei permessi “aumenterà il senso di ingiustizia e frustrazione dei palestinesi”.
Il governo israeliano ha reagito con durezza all’attacco: giovedì il premier Netanyahu ha incontrato il gabinetto della sicurezza e annunciato misure punitive nei confronti della popolazione palestinese. Alla revoca dei permessi, quindi, potrebbero seguirne altre. Tra queste il dispiegamento di centinaia di altri militari in tutta la Cisgiordania: la prima misura assunta dal neo ministro della Difesa, l’ultranazionalista Lieberman, è stata l’invio di due battaglioni nei Territori.
A Yatta, nel distretto di Hebron, la città di provenienza dei due palestinesi responsabili dell’attacco (Mohammad e Khaled Mukhamra), la punizione è già realtà: i soldati israeliani hanno chiuso la zona con checkpoint volanti e controlli a chiunque entri o esca. E le minacce di Lieberman potrebbero presto essere realtà: il ministro ha chiesto la demolizione delle case di proprietà delle famiglie dei due palestinesi entro 24 ore.
Di certo le punizioni collettive che si abbatteranno sui palestinesi dei Territori non faranno che intensificare il sentimento di frustrazione e disperazione che in questi mesi ha mosso molti giovani a compiere attacchi con i coltelli contro soldati o civili israeliani. Tanto chiare sono le motivazioni che hanno portato agli attacchi che lo stesso sindaco di Tel Aviv ha indicato nell’occupazione militare la reale causa delle violenze.
Il giorno dopo l’attacco di Tel Aviv, mentre molti politici israeliani facevano la spola a Sarona Market e altri soldati venivano inviati in Cisgiordania, il sindaco Ron Huldai in un’intervista all’Army Radio rivoltava la narrativa israeliana: “Noi, come Stato, siamo gli unici al mondo con accanto un popolo sotto occupazione, un popolo a cui neghiamo i diritti – ha detto – Siamo arrivati a 49 anni di occupazione, a cui io ho preso parte, e riconosco la realtà. Il fatto  che soffriamo non ci porta a capire cosa andrebbe fatto. Non possiamo mantenere questa gente in una realtà nel quale sono occupati per poi aspettarci che raggiungano la conclusione che va tutto bene”. Nena News
Roma, 10 giugno 2016, Nena News – L’attacco a colpi di arma da fuoco che mercoledì sera ha ucciso quattro israeliani nel centro di Tel Aviv ha provocato un’escalation della tensione che sta colpendo i palestinesi residenti nei Territori Occupati. La prima misura assunta dal governo di Tel Aviv è stata la sospensione dei permessi di ingresso in Israele per 83mila palestinesi autorizzati ad attraversare un checkpoint militare per entrare in territorio israeliano.
Una punizione dura se si tiene conto che molti avevano ottenuto il permesso in occasione del mese sacro musulmano appena cominciato, il Ramadan. Questa mattina solo 7mila palestinesi della Cisgiordania sono stati autorizzati ad entrare a Gerusalemme. E nella moschea di al-Aqsa l’ingresso è stato consentito solo agli uomini con più di 45 anni e alle donne di ogni età. In migliaia sono rimasti bloccati ai checkpoint.
Nelle stesse ore Israele annunciava la chiusura militare di Cisgiordania e Gaza fino a domenica sera, eccezion fatta per i casi umanitari e le emergenze mediche. La misura ha sollevato le critiche delle Nazioni Unite che hanno definito la sospensione degli 83mila permessi una forma di punizione collettiva, vietata dal diritto internazionale. A dirlo è Zeid Ra’ad al Hussein, alto commissario Onu per i diritti umani: la revoca dei permessi “aumenterà il senso di ingiustizia e frustrazione dei palestinesi”.
Il governo israeliano ha reagito con durezza all’attacco: giovedì il premier Netanyahu ha incontrato il gabinetto della sicurezza e annunciato misure punitive nei confronti della popolazione palestinese. Alla revoca dei permessi, quindi, potrebbero seguirne altre. Tra queste il dispiegamento di centinaia di altri militari in tutta la Cisgiordania: la prima misura assunta dal neo ministro della Difesa, l’ultranazionalista Lieberman, è stata l’invio di due battaglioni nei Territori.
A Yatta, nel distretto di Hebron, la città di provenienza dei due palestinesi responsabili dell’attacco (Mohammad e Khaled Mukhamra), la punizione è già realtà: i soldati israeliani hanno chiuso la zona con checkpoint volanti e controlli a chiunque entri o esca. E le minacce di Lieberman potrebbero presto essere realtà: il ministro ha chiesto la demolizione delle case di proprietà delle famiglie dei due palestinesi entro 24 ore.
Di certo le punizioni collettive che si abbatteranno sui palestinesi dei Territori non faranno che intensificare il sentimento di frustrazione e disperazione che in questi mesi ha mosso molti giovani a compiere attacchi con i coltelli contro soldati o civili israeliani. Tanto chiare sono le motivazioni che hanno portato agli attacchi che lo stesso sindaco di Tel Aviv ha indicato nell’occupazione militare la reale causa delle violenze.
Il giorno dopo l’attacco di Tel Aviv, mentre molti politici israeliani facevano la spola a Sarona Market e altri soldati venivano inviati in Cisgiordania, il sindaco Ron Huldai in un’intervista all’Army Radio rivoltava la narrativa israeliana: “Noi, come Stato, siamo gli unici al mondo con accanto un popolo sotto occupazione, un popolo a cui neghiamo i diritti – ha detto – Siamo arrivati a 49 anni di occupazione, a cui io ho preso parte, e riconosco la realtà. Il fatto  che soffriamo non ci porta a capire cosa andrebbe fatto. Non possiamo mantenere questa gente in una realtà nel quale sono occupati per poi aspettarci che raggiungano la conclusione che va tutto bene”. Nena News

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