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Q CODE Magazine > Cultura > Il ricamo palestinese è resistenza Il ricamo palestinese è resistenza 22/06/2016 / 18 views In questi giorni a Beirut, alla fondazione Dar El Nimer per l’arte e la cultura (Dar El Nimer lil-fann…
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 di Chiara Comito
Gli abiti dai preziosi ricami in mostra raccolti dalla curatrice Rachel Dedman nel corso del suo progetto di ricerca vanno dai primi del ‘900 ai giorni nostri. Il progetto di Dedman è stato commissionato dal Museo palestinese di Bir Zeit, vicino Ramallah, ed è in realtà la prima vera esposizione di questo Museo, inaugurato pochi giorni fa, ma che darà il via alle attività culturali a partire dal prossimo ottobre.

Atraf al-khoyut: al-tatriz al-filastini fi siaqa al-siyyasi/At the Seams: A Political History of Palestinian Embroidery, questo il titolo della mostra, è un progetto multimediale: in mostra non ci sono solo abiti tradizionali, poster e ricami, ma anche immagini storiche raccolte attraverso un certosino lavoro di ricerca negli archivi, e video – interviste con le donne palestinesi, che ancora lavorano al tradizionale ricamo, incontrate da Dedman nel corso delle sue ricerche in Palestina, e nei campi profughi in Giordania e Libano. “Abbiamo affiancato i vestiti alle foto e ai video per rendere più dinamico il nostro progetto” – ha detto la Dedman mercoledì scorso, durante il lancio ufficiale del catalogo della mostra.
“L’arte del ricamo palestinese per me è una questione politica per due motivi – ha proseguito – perché a farlo, prima di tutto, sono le donne, vere agenti del cambiamento. In secondo luogo, perché incrocia in maniera indissolubile la storia della Palestina”. I vestiti dei primi del ‘900 esposti nella collezione sono molto diversi da quelli più contemporanei. E non è solo una questione di tessuti o di moda che cambia.
Prima della Nakba del 1948, ogni città e villaggio palestinese aveva il suo particolare “punto” e il proprio colore di riferimento: il rosso creato dalle ricamatrici di Khalil/Hebron, per esempio, era diverso dalla tintura usata a Gaza. Il motivo stilizzato dell’uva era tipico di Khalil/Hebron, mentre a Gerico o Nablus le ricamatrici si ispiravano ad altri motivi floreali o alla fauna locale. La forma degli abiti, realizzati in cotone, lino, velluto o seta, era più o meno la stessa: dalle maniche lunghe o tagliate all’altezza del gomito, il vestito scendeva dritto sui fianchi fino a circa metà polpaccio. La parte anteriore, all’altezza del petto, era quella più visibile e dunque la più importante: i ricami e i punti più difficili venivano utilizzati lì, per dare risalto all’abito, perché quella era la parte “più vicina al cuore”. Anche dopo l’arrivo delle macchine per cucire, questi punti venivano eseguiti a mano. I ricami però non dovevano essere troppo perfetti perché altrimenti avrebbero attirato l’invidia delle altre donne – e difatti in alcuni abiti si nota qualche sbavatura o cambio di colore improvviso.



Ugualmente decorate erano la maniche, la parte finale dell’abito e i fianchi. Il resto del vestito era solitamente in tinta unita. Se il rosso era il colore prevalente dei ricami perché “simboleggia la vita e l’amore”, la tinta dell’abito poteva cambiare a seconda delle occasioni. Blu se la donna era in lutto (ma la stessa tornava a indossare il rosso se si risposava), bianco se il vestito era per il matrimonio in estate, nero se il matrimonio si svolgeva d’inverno. L’arte del ricamo si imparava sin da piccole: quando la bambina compiva 6 – 7 anni comprava i primi fili per tessere e il ricamo veniva tramandato di generazione in generazione. Ogni giovane donna però creava da sé i propri abiti (ad eccezione delle donne più agiate che li commissionavano alle sarte), a dimostrazione che era ormai in grado di padroneggiare la tecnica da sola.
Dopo il 1948 tutto cambia: la maggioranza dei palestinesi è costretta a scappare dal proprio villaggio o città e rifugiarsi con le famiglie nei campi profughi a Gaza, in Libano o in Giordania dove donne e uomini provenienti da tutta la Palestina si ritrovano insieme.
I tessuti egiziani o damasceni non sono più disponibili e le donne sono costrette a utilizzare materiali sintetici in arrivo da Cina e Giappone. Si perdono le caratteristiche regionali e i motivi e gli abiti si uniformano, diventano più omogenei. Non c’è neanche più tempo, in quei primi frenetici decenni post – 48, per dedicarsi ore e ore al confezionamento degli abiti. Ne perde la qualità della fattura, ma ora le priorità sono altre.



Dagli anni ’70 l’abito palestinese si colora di una nuova simbologia: sui vestiti delle donne di Khalil/Hebron e di Qalandia, dove l’esercito israeliano aveva proibito l’uso della bandiera palestinese, appaiono i simboli storici della lotta palestinese. Sui lunghi abiti vengono ricamati la bandiera palestinese, il nome Palestina, i colori palestinesi, la Moschea al Aqsa. È una reazione ai divieti israeliani: l’abito delle donne diventa lotta e resistenza in solidarietà con i combattenti palestinesi. “Non avevo un fucile, così ho combattuto con l’unica arma che avevo: il mio ago”, ha affermato una delle donne incontrate da Dedman.
Oggi il ricamo palestinese viene ancora utilizzato dalle donne palestinesi sparse in tutto il Medio Oriente: donne dai 20 ai 70 anni lavorano almeno 10 ore al giorno per confezionare abiti e altri oggetti come borse, borsellini o scialli.
Con il loro lavoro riescono a mantenere la famiglia e proseguono la tradizione delle donne di Palestina. E continuano ad esprimere il sumud dei palestinesi. Accanto quindi agli abiti sintetici prodotti in Cina e venduti nei mercati di Amman o Ramallah, orrenda imitazione degli abiti di inizio ‘900 e che ne fanno un oggetto del mercato globale, esiste ancora un’arte del ricamo palestinese eseguita a mano. Che però sta sparendo: ecco perché per salvarla sono nati centri e organizzazioni che incentivano le donne palestinesi ad apprenderla e diffonderla.
La mostra è in esposizione a Dar El Nimer (America Street, Clemenceau, Beirut) fino al 30 luglio.



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