Il messaggio di Rav Laras per Shavuot: "Vi dico la verità sull'ebraismo italiano"
Sul monte Sinai avvenne dinanzi all’intero Popolo…
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MESSAGGIO ALLE EBREE E AGLI EBREI DI ITALIA PER SHAVUOTH 5776
Sul monte Sinai avvenne dinanzi all’intero Popolo Ebraico l’evento grandioso del Mattàn Torah, del dono da parte di Dio della Torah
a Israele. Da quel preciso momento, sempre rinnovantesi, l’esperienza
singola di ogni ebreo e quella collettiva dell’intero Popolo hanno
trovato senso e futuro nella Torah.
Libertà e comandamento si esaltano e si corrispondono appieno nel mondo della Torah, l’una è partecipe dell’altro. La Meghillath Ruth, che noi leggiamo e studiamo a Shavu’òth,
ripropone tutto questo, legando destini personali ad attese universali,
esaltando l’osservanza religiosa ed estendendone le prospettive e i
significati. Sono pagine entusiasmanti, allusive, delicate e commoventi.
Il mondo della Torah parla il linguaggio della Halakhah e quello della Haggadah;
quello della normativa, dettagliato, severo, preciso, attento,
scrupoloso e geniale, e quello della riflessione esegetica, ossia
dell’allusione intellettuale, dell’edificazione morale e religiosa,
dell’intuizione mistica, della parabola.
La Halakhah
è molto di più della casuistica rabbinica, e tuttavia la sua
comprensione passa per la stretta via dello studio consumato di
quest’ultima; la Haggadah e il suo mondo sono realtà molto più
serie, delicate e difficili di molta cosiddetta “cultura ebraica”,
spesso tanto ciarliera quanto ignorante di sé. Resta il fatto che la
prima è molto più complicata ed esigente e che il suo procedere, come il
suo riflettere su se stessa, rappresentano il genio proprio
dell’ebraismo.
Narrativa e normativa
sono i caratteri identitari e fondativi che definiscono l’ebreo e
l’ebrea. Una vita ebraica che non coltivi –o che peggio, volutamente,
per ideologia o per indolenza, scelga di allontanare da sé- uno dei due
aspetti è destinata inevitabilmente ad avvizzire. Spesso, se questo
effetto non appare conclamato nella propria personale esistenza,
puntualmente si verifica in quella dei figli o dei nipoti. Purtroppo ne
abbiamo continuamente molti esempi: o un’osservanza rattristita e
formalistica nel primo caso o, cosa drammaticamente più grave e diffusa,
nel secondo caso, un lassismo autoindulgente, che si perde dietro a
fumose utopie, prive di nerbo e di concretezza e che, infine, in una
generazione o due, si smarrisce nell’assimilazione e nell’abbandono.
Halakhah e Haggadah insegnano che le mitzvòth devono essere osservate, e possibilmente osservate con gioia. Parimenti la Torah
andrebbe studiata con gioia. Infine, la nostra Tradizione insegna che
questo studio, faticoso e tutt’altro che semplice, procura gioia.
Halakhah e Haggadah sono
un unico tizzone: la prima è la brace, la seconda è la fiamma. Esse
esistono insieme. Può tuttavia accadere che la combustione si smorzi:
può esistere e resistere a lungo la brace senza fiamme che danzino,
ardano e guizzino; non possono però le fiamme perdurare un secondo senza
le braci. Lo stesso si verifica nel mondo della Torah in relazione a Halakhah e Haggadah.
L’ebraismo
si preoccupa in primo luogo di disciplinare le azioni e di tradursi
costantemente in prassi. Il resto è commento. Un ebraismo senza azioni
non è ebraismo. Una “cultura ebraica” senza questa vita “pratica”
vissuta potrà forse talora essere “cultura”, ma certamente si priva
dell’aggettivo “ebraica”.
La Torah è detta Torath Emet e Torath Haìm, ossia, rispettivamente, “insegnamento di verità” e “insegnamento di vita”. Non è dunque peregrino dire la verità per la vita dell’ebraismo italiano, specie in vista del rinnovarsi delle dirigenze comunitarie dell’UCEI e specie a ridosso della Festa di Shavu’oth.
La situazione delle nostre Comunità in Italia è drammatica, e tutto ciò è reso ancora più drammatico dal rumore mediatico
attorno a noi – da noi spesso persino sollevato e ricercato!- che
ottunde le nostre percezioni e che ci distoglie dall’affrontare i
problemi serissimi e angosciosi che nel futuro, a breve e medio termine
(al massimo due o tre decenni), dovremo affrontare.
L’erosione
continua e progressiva delle nostre Comunità, su cui molto si è
tergiversato anche solo a rifletterci, sta andando incontro a fasi
nuove, dato che i tempi della storia e degli usi e costumi dell’umanità
stanno accelerando in maniera serrata. L’accelerazione degli usi e dei
costumi generali, come pure l’instabilità e la continua mutevolezza
culturale, sociale e politica occidentale, pone ipoteche serissime
ulteriori sulle nostre piccole Comunità e sul loro destino, di per sé
già provate in primo luogo da problemi interni ed endogeni.
Serve con urgenza e in primo luogo un progetto religioso
-in senso ebraico-, ossia conseguentemente anche sociale e culturale,
per l’ebraismo italiano: se non contribuiremo a cavalcare i processi
culturali, li subiremo. Cioè, anche in relazione al mondo esterno, in
una società liquida come la nostra, non è più l’epoca degli “ebrei di
corte” e dei loro epigoni recenti, introdotti nei palazzi e nei salotti
buoni, premurosi di accomodare le cose, di non dispiacere troppo e di
ottenere garanzie a prezzi sopportabili. Non è più l’epoca, anche perché
chi tra noi non è disposto a sottostare a questo logorio ha molta più
facilità, rispetto anche a un passato non troppo distante da noi, di
andare altrove, in primo luogo in Israele.
È auspicabile che gli eletti e i delegati al prossimo Congresso siano, per quanto possibile, da una parte o dall’altra, uomini e donne “nuove”, che intavolino una partita diversa per un futuro diverso, e che vi sia uno scarto rispetto alle passate gestioni.
Serve che queste persone meditino a lungo sull’infinita, gravosa
responsabilità che avranno in mano per il futuro dell’ebraismo italiano.
È auspicabile che queste persone, fatta salva l’onestà personale dei
singoli, prima di pensare di offrire qualcosa all’ebraismo italiano,
avvertano un ragionevole senso di inadeguatezza per la situazione
presente e le ipoteche future, sì che “tremino loro i polsi”. Servono
cioè persone che misurino e calibrino loro stesse e che sappiano
resistere alla tentazione, tanto più devastante quanto più inconscia, di
“usare” le nostre istituzioni e la loro appartenenza al ns. Popolo per
scopi estranei al servizio, spesso difficile e sofferto, alle ns.
Comunità.
Nell’eterna diatriba post-emancipazione, tra laici e religiosi, tra assimilazionisti à la page e religiosi cupi e risentiti, ritornano, proiettate sui rabbini, due parole, usate come slogan e come pietre: “apertura” e “chiusura”.
Vengono così individuati i buoni e i cattivi, i colti e gli incolti,
gli intelligenti e i fanatici, alimentando inevitabilmente due ideologie
mortifere, entrambe, all’occorrenza, in attacco o in difensiva. Non si
può più perdere tempo in queste piccinerie: semplicemente, non abbiamo
più molto tempo e, sia le nostre Comunità sia il Rabbinato italiano, in
larga misura si sono ampiamente dissolti.
Vi sono pochi rabbini italiani:
molti di noi sono vecchi, pochissimi e insufficienti sono i giovani.
Molte pecche possono essere imputate ai rabbini. Molti di noi non
studiano da tempo e si vede, e mi riferisco a studi di Halakhah
in primo luogo, ovviamente; alcuni hanno evidenti difficoltà e disagi
relazionali; molti, totalmente disamorati a causa di decenni di
permanenza in Comunità che li hanno concepiti e ridotti a meno
“funzionari religiosi”, pensano ormai al loro particulare. Altri
hanno deciso di fare i “rabbini intellettuali”, senza pagare dazio nella
scarnificante vita religiosa a contatto con i problemi quotidiani dei
singoli e della Comunità. Infine, alcuni passano per “buoni” perché ben
disposti a convertire non ebrei all’ebraismo. In generale, vi è amarezza, stanchezza, solitudine e incomprensione.
Le disfunzioni delle vite rabbiniche tuttavia corrispondono e sono
conseguenti alle disfunzioni delle vite comunitarie; una cosa peggiora
ed esaspera l’altra. Va ricordato, tuttavia, che il rabbino è un uomo,
con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, e non una collettività. E che
spesso il rabbino, anche quello migliore ipotizzabile umanamente e
religiosamente, è solo. E l’ebraismo, al contempo, è una “religione
sociale”; ossia presuppone ed esiste unicamente in una “società
ebraica”, che voglia esser tale e che in tal modo voglia vivere.
Mi
rendo perfettamente conto che la maggior parte di noi, sia laici sia
religiosi, al contempo, sinceramente, crede di operare -ed opera- con le
migliori intenzioni.
Andrebbe ricordato ai
fautori ideologici dell’aperturismo senza frontiere –e andrebbero ben
messi in guardia i nostri fratelli da queste sirene- che negli ultimi
cinquant’anni -sino a ora- i vari Tribunali Rabbinici italiani hanno
complessivamente convertito all’Ebraismo alcune migliaia
di persone, in seno a una popolazione ebraica oscillante tra poche
decine di migliaia di unità, con un rapporto tra ebrei convertiti (per
lo più da matrimoni misti) e ebrei di nascita inedito. E tutto questo
non è servito a fermare, o almeno a sufficientemente contrastare, il
processo assimilatorio in seno alle famiglie ebraiche italiane. A chi
obietta che senza le conversioni dei discendenti di matrimoni misti
saremmo ancora di meno, obietto che ai Tribunali Rabbinici, dal migliore
al peggiore, dal più paludato e istituzionale a quello più
“garibaldino”, quella che unicamente deve importare –e che pone il
discrimine essenziale e imprescindibile- è la qualità religiosa della conversione,
tutti gli altri criteri sono fallaci, inadeguati, estranei e
disorientanti. Obietto, inoltre, che chi ha davvero “salvato” i numeri
dell’ebraismo italiano, altrimenti ancor più spazzato via dalla Storia
recente, è stato in primo luogo l’afflusso di migliaia di ebrei dai
Paesi islamici negli scorsi decenni: Libia, Siria, Libano, Egitto e
Iran, ebrei che spesso oggi abbandonano l’Italia alla volta di nuovi
Paesi e di nuove storie personali e collettive. E anche su quest’ultimo
punto dovremmo interrogarci e confrontarci. Infine, sulla qualità religiosa
delle migliaia di conversioni fatte, sia i rabbini sia tutti i figli e
le figlie di Israele in Italia dovrebbero molto interrogarsi, dato che,
con il passare del tempo, la partecipazione alla vita comunitaria
assieme all’osservanza delle mitzvòth da parte di molti dei figli e dei nipoti delle coppie miste ammessi in seno a Israele è purtroppo minima.
Per converso è altrettanto vero che spesso in Comunità assimilate e debilitate sono proprio alcuni gherìm a garantire, promuovere e tenere in essere queste Kehillòth,
religiosamente, socialmente e culturalmente. Anche questo testimonia,
nel tempo, fattivamente, la qualità religiosa – in questo caso positiva-
di una conversione.
Bisogna, per amore di verità e per amore dei nostri fratelli e sorelle, dire che le
conversioni, specie nelle Piccole e Medie Comunità Italiane,
indipendentemente dai Tribunali Rabbinici e dai rabbini, saranno sempre
più difficilmente praticabili, perché si è dissolto il mondo
ebraico in cui accogliere l’eventuale convertito, oppure tale mondo, ai
minimi termini, risulta profondamente debilitato. Per la Halakhah, vi è Comunità là dove vi è un miniàn, ossia dove è possibile avere regolarmente funzioni religiose, celebrare degnamente Shabbat e le Feste, osservare appieno la kasheruth, studiare Torah.
Quali tra le nostre Comunità garantiscono e ancor più sono in grado di
garantire nel futuro tutto questo seriamente, in maniera vitale e
creativa? Cosa facciamo noi tutti? Che politiche abbiamo in mente? Cosa
si può ancora fare e cosa ormai non si può più fare? Con quali criteri,
infine, distinguiamo tra ciò che è e sarà essenziale, su cui investire, e
ciò che invece è contingente e addizionale, nel concentrare le nostre
forze residue?
Parlando di Torah e
parlando, quindi, di vita, è domanda religiosa essenziale e vitale
quella che riguarda la nascita di bambini ebrei in Italia, con la
creazione di coppie ebraiche.
Il Santo e Benedetto ci scuota, ci illumini e ci benedica con il dono della Sua Torah,
capace di aiutarci a trasformare il deserto in terra fertile, le nostre
sterilità e pochezze in estrose e carsiche forze positive, situazioni
difficili in zemàn simchatenu, tempi di gioia!
Rav Prof. G. Laras, Av Beth Din
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