Giuseppe Gigliotti : Alià boomerang?
Ancora una volta, il cerchio sembra
essersi concluso. Messo sotto ricatto da membri della sua
instabile coalizione, Benjamin Netanyahu ha infine concesso
l'autorizzazione a finanziare l'alià degli ultimi 9000
Falashmura (etiopi presumibilmente discendenti da Beth Israel
costretti nei secoli precedenti alla conversione al
cristianesimo) nell'arco di cinque anni. O questo è per lo meno
quanto si possa dire al momento. Perché quella che potrebbe
apparire una semplice procedura d'ordinaria amministrazione
nello Stato ebraico fornisce invece un'importante lezione di cui
tenere conto. Circola al riguardo una battuta che sarebbe stata
fatta da un diplomatico etiope all'allora Ministro per
l'Assorbimento Yuli Edelstein, una volta approvata la prima
decisione di trasferire in Israele i Falashmura: "Invitatemi
alla cerimonia per il milionesimo immigrato". Che sia vera o no,
questa storia coglie il succo di un dilemma con cui Israele sta
iniziando a confrontarsi: come negare il diritto di alià ad un
numero pressochè illimitato d'immigrati, pronti ad utilizzare la
Legge del Ritorno per soddisfare ragioni ben lontane da quelle
dell'ideale sionista? Per chiunque non fosse esperto nella
questione, bisogna ricordare che la stessa vicenda dell'alià
etiope, lungi dall'essersi esaurita agli inizi degli anni
Novanta, sembra costituire un pozzo senza fondo. Non appena
concluso il ciclo di assorbimento dell'ultimo gruppo,
immancabili sbucano nuove migliaia di persone, legate da vincoli
familiari con i novelli cittadini israeliani. E, posti di fronte
alle accuse di razzismo ("se si fosse trattato di russi con gli
occhi azzurri ed i capelli biondi, non li avreste lasciati
marcire lì", è un motivo più volte utilizzato dalla comunità
etiope in Israele), i governi israeliani finiscono ogni volta
per capitolare, spalancando i cancelli ad un nuovo "finale"
gruppo di olim. Sennonché i potenziali candidati di dubbia
ascendenza ebraica non hanno mai fine. Ed infatti, i sipari
sulla precedente "alià finale etiope" si erano appena spenti,
che già NGOs attive nel recupero di "ebrei perduti" cominciavano
a discutere sulla necessità di "riportare a casa" i Bnei Menashe
(una popolazione vivente nell'India nordorientale) e
d'incrementare gli sforzi per ricondurre all'ovile gli anusim di
ascendenza sefardita o sud-italiana. Le radici alla base di tale
ragionamento sono ben note a chiunque sia addentrato
nell'ideologia dominante in Israele. Indurre alla risalita gli
ebrei perduti costituisce una delle massime aspirazioni del
sionismo, e garantisce il permanere della maggioranza ebraica,
su cui poggia la ragion d'essere dello Stato ebraico. Il
problema è che nel lungo periodo gli effetti di simili scelte
rischiano di arrecare danni di gran lunga superiori ai benefici.
La prima vittima di questa politica è la stessa legittimità
della Legge del Ritorno. I principali argomenti utilizzati dagli
ebrei israeliani per convincere i loro fratelli in Diaspora
(specie quelli americani) a supportare una legislazione sempre
più spesso demonizzata, tanto in ambienti di estrema destra che
di estrema sinistra, sono sostanzialmente due: che essa supporta
coloro che possano provare una sicura ascendenza ebraica, e che
il suo automatismo sia necessitato dal salvare ebrei in
pericolo. Ciò non sembra però esservi nei casi in questione.
Tanto i Falashmura, quanto i Bnei Menashe e gli Anusim non
provengono certamente da paesi a rischio di genocidio ebraico.
Anzi, India ed Etiopia sono considerate tra i migliori alleati
israeliani. Nè il loro legame ebraico può considerarsi così
stretto da soddisfare gli stringenti requisiti richiesti dalla
Legge del Ritorno. Non a caso, la possibilità di usufruire della
stessa è stata in tutti i casi vincolata ad una previa
conversione all'ebraismo. Cosa induce allora queste persone a
compiere un simile passo? La risposta è ovvia: in tutti i casi,
la prospettiva di poter abbandonare aree in drammatica
recessione economica o povertà, motivi ben estranei alle nobili
radici che avevano originato, nel 1950, l'emanazione della Legge
del Ritorno. Ancora più gravi dei riflessi morali sono però le
conseguenze di ordine demografico e politico-ideologico. Il
presunto diplomatico etiope non si era certamente lasciato
andare a puro sarcasmo: è difatti evidente che, una volta fatta
eccezione per una categoria, questo tipo d'immigrazione non
potrà più essere arrestata nel lungo periodo. Ciò comporterebbe
per Israele il rischio di essere inondata da milioni d'individui
privi di reale ascendenza ebraica (non potendo difatti nel lungo
periodo il requisito della conversione ortodossa essere
richiesto al crescente numero di ebrei identificantesi solo su
base etnica), una prospettiva da incubo per qualsiasi sionista.
Ma anche se questa possibilità venisse evitata, è quanto mai
dubbio che la legittimazione morale d'Israele potrebbe permanere
intatta, sia agli occhi dei propri cittadini non ebrei che a
quelli dell'opinione pubblica mondiale. Al riguardo, fiumi di
parole sono stati spesi sulla necessità di legare allo Stato
ebraico gli arabi israeliani, inducendoli ad abbandonare il
sostegno alla loro leadership estremista. Sennonché continuare
ad investire milioni di shekel a favore di stranieri con tenui
legami ebraici, rischia semmai di confermare tra i cittadini
arabi un sentimento d'inferiorità, distruttivo per le
prospettive di coesistenza. E poiché ciò che è male per Israele
costituisce una manna per i suoi nemici, simili scelte rischiano
d'ingrossare le fila del BDS. Quest'ultimo è stato sinora
bloccato da una robusta serie d'iniziative legislative, sulla
base che Israele non agisse in maniera differente dal resto
della famiglia occidentale. Ma la vicenda dei Falashmura
descrive un racconto diverso. Se Israele volesse assorbire
individui in stato di necessità non dovrebbe impegnarsi ad
aereotrasportarne migliaia da angoli remoti del globo.
Basterebbe assorbire quelli affollanti il centro di raccolta di
Holon od impegnati in lavori umili nei quartieri meridionali di
Tel Aviv. Che lo stato ebraico si stia ciò nonostante
attivamente impegnando a liberarsene, investendo nel contempo
denaro ed energie per agevolare l'immigrazione d'individui non
in stato di pericolo mina i principi cardinali della famiglia
occidentale, di cui lo Stato ebraico dichiara di volere essere
parte. Ed un'entità politica che tradisca valori morali
considerati "sacri" può divenire legittimo bersaglio di una
campagna d'isolamento completo. Ovviamente, si potrà obiettare
che Israele è uno Stato sovrano. Ma quel che è certo è che molti
non ebrei rischiano di ricevere da simili episodi la medesima,
rovinosa impressione espressa da Raviv Ducker su Haaretz: "tutto
ciò che [noi israeliani] dovremmo fare è dare ai migranti per
ragioni economiche/rifugiati che sono già qui diritto di
cittadinanza, invece di dar loro la caccia nelle strade ed
espellerli brutalmente. Ah, mi spiace, dimenticavo. Quei neri
sono un "cancro", mentre quegli altri sono ebrei". [http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.711234]
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