Giorgio Berruto : I ragazzi delle colline e il messianismo fondamentalista .
http://www.hakeillah.com/2_16_01.htm
“Siamo noi, oggi, i veri pionieri”. Parla a
gran voce e ride Nati Rom, fondatore di Lev Haolam e di
cinque villaggi ebraici in Samaria, tutti illegali ma di
fatto tollerati nel contesto di un processo da decenni
sfuggito al controllo delle autorità israeliane. Di
recente, a Gerusalemme, ho avuto occasione di
ascoltarlo. Perciò ho imparato che, oltre
all’edificazione di insediamenti illegali in territori
che non fanno parte dello Stato di Israele, Nati Rom ha
un’altra passione: salire sul monte del Tempio dove da
tredici secoli si ergono le moschee della Roccia e di al
Aqsa e cercare, attraverso la provocazione, di suscitare
la reazione violenta di gruppi di arabi - che
approfittano quasi sempre volentieri del pretesto
fornito loro. Nel suo programma, infine, figura
l’edificazione del terzo Tempio, si presume in seguito
alla distruzione delle moschee, e il rovesciamento dello
Stato di Israele, da sostituire con una monarchia
messianica. “La politica non mi interessa e non aderisco
a partito alcuno”, chiosa Rom, “prendo ordini soltanto
dal Messia”. E conclude, a scanso di equivoci: “Sono
ottimista: il bene e l’amore trionferanno”.
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Nati Rom |
Nati Rom non è il solo fanatico tra gli
ebrei che risiedono nella West Bank, e a quanto pare neanche il
peggiore. Come ha scritto con grande chiarezza Sergio Della
Pergola su Pagine ebraiche e su Moked alcuni mesi
fa, il fanatismo dei “ragazzi delle colline” coinvolge oggi
decine di migliaia di individui e procede per cerchi
concentrici. Non tutti sono terroristi capaci di uccidere i non
ebrei o gli ebrei giudicati traditori - neanche Nati Rom,
d’altronde, rientra in questa categoria. Intorno ai criminali,
però, si estendono aree via via più vaste, occupate
progressivamente da chi non uccide ma approva, non approva ma
tollera, non tollera ma capisce, non capisce ma non critica,
critica ma non fa nulla per evitare. “Così si arriva al
crimine”, conclude Della Pergola.
Non voglio dilungarmi in una discussione
del problema politico del fanatismo e del terrorismo ebraico,
anche se si tratta di una realtà solida e in costante ascesa
ancora gravemente e colpevolmente sottovalutata sia in Israele -
soprattutto da parte dei partiti di destra, non di rado disposti
a chiudere un occhio per discutibili motivi di consenso - sia da
parte di quegli ebrei europei e anche italiani che forse
ritengono di fare un buon servizio a Israele esaltando gli
indubbi successi del Paese ma sottacendo i suoi problemi, che
pure non mancano. Sono convinto che gli israeliani che non
condividono le posizioni di Rom e dei suoi camerati - e sono
senza dubbio la maggioranza - dovrebbero domandare con forza
crescente al proprio Paese di reagire contro questi personaggi,
non solo perché sarebbe giusto farlo, ma anche perché sono
deleteri per Israele come e persino più di coloro che, con gli
occhi fissi a una minuscola porzione del vasto quadro,
appoggiano il boicottaggio di Israele nel consesso delle nazioni
e nelle arene dell’economia e della cultura “per il suo stesso
bene”.
Cercherò, invece, di riflettere
sull’affermazione di Nati Rom con cui ho esordito e di
concludere con due brevi spunti teorici alla discussione. Rom,
come tanti altri fanatici ebrei che risiedono oltre la linea
verde, si ritiene un pioniere e un vero sionista, erede ideale
di coloro che cento anni fa diedero vita all’esperienza del
kibbutz. Siamo davvero sicuri che le cose stiano in questo modo?
Io credo che il ritorno alla terra dei kibbutznikim rimandasse
al principio ebraico di tikkun haolam, riparazione e
miglioramento del mondo, e che il ritorno a una terra ben
precisa e insostituibile, la Terra di Israele, volesse tradursi
nel punto di partenza per tentare di mettere in pratica un
rinnovato umanesimo globale e proporre un modello di abitare e
coabitare inedito. Niente di tutto questo sopravvive nel
messianismo teocratico di Rom e di tanti come lui: per costoro è
il possesso della terra l’obiettivo, giustificato in base a
letture spesso idiosincratiche di testi ebraici e alla
predicazione di folli invasati o di loschi faccendieri che
antepongono al bene collettivo il perseguimento di carriere
personali. Dimenticano forse le parole con cui il Signore si
rivolge al popolo ebraico in un celebre passo della Torah: “Mia
è la terra, perché voi siete forestieri e residenti provvisori
presso di Me” (Levitico, 25,23).
A mio modo di vedere in entrambe le
esperienze lo sforzo ideale messianico tipicamente ebraico ha un
ruolo decisivo: nel caso dei kibbutzim, però, è stato declinato
politicamente, mentre il messianismo dei “ragazzi delle colline”
è apolitico, o meglio anti-politico, perché contiene in sé il
radicale rifiuto della politica stessa, intesa come serie di
regole date dagli uomini a se stessi per organizzare la
reciproca convivenza. “Non sostengo nessun partito”, dice Nati
Rom, “sopra di me riconosco solo il Messia”.
Utilizzando liberamente due categorie della
riflessione di Emmanuel Levinas, si può affermare che dove i
kibbutzim e i fondatori dello Stato di Israele aspiravano al
santo, i “ragazzi delle colline” cercano il sacro. Da una parte
il rimando sempre presente a un Altro e a un Oltre, una
relazione di apertura che scaturisce proprio dal vivere sulla
terra, e non una regione qualsiasi: la Terra di Israele.
Dall’altra la trasformazione della terra in qualcosa di statico:
monumento, idolo da adorare e verso cui prostrarsi. E quando la
terra da luogo su cui vivere diviene fine a cui tendere, da
spazio di convivenza e residenza transitoria diviene proprietà;
allora la Terra di Israele perde la propria specificità ebraica
e si trasforma in una distesa di zolle immobili, oggetti inerti,
idoli: non più Terra, ma terra. Non rete di relazioni e di
rimandi, ma vitello d’oro di fronte a cui ci si può soltanto
prostrare. Questo non significa espungere dall’ebraismo la
dimensione dello spazio, ma sottolineare, con la migliore
tradizione novecentesca che da Heschel conduce fino al
recentissimo Con lo sguardo alla luna di rav Roberto
della Rocca, che la vita ebraica è una vita nel tempo: ovvero
che lo stesso vivere in un luogo significa vivere in un luogo
che a propria volta è già da sempre inserito nel tempo.
Un’ultima riflessione. I fondamentalisti ebrei come Nati Rom rifiutano la politica e anche nel dominio della convivenza con gli altri si fanno sostenitori di un modello di agire fondato esclusivamente sulla relazione diretta con i dettami divini - nella forma spesso pretestuosa in cui declinano questi ultimi. Abbracciano, quindi, un modello etico che fa leva su principi nudi senza sfumature, e non sulla mutevolezza continua e colorata dei fatti nel mondo. Su valori proclamati assoluti, non sulla responsabilità. È un paradigma che vorrebbe scardinare l’idea stessa di politica, intesa come necessità di porre regole umane al convivere umano. Per farlo, ci sono persone disposte a tutto, anche a distruggere lo Stato di Israele. E si tratta di ebrei.
Un’ultima riflessione. I fondamentalisti ebrei come Nati Rom rifiutano la politica e anche nel dominio della convivenza con gli altri si fanno sostenitori di un modello di agire fondato esclusivamente sulla relazione diretta con i dettami divini - nella forma spesso pretestuosa in cui declinano questi ultimi. Abbracciano, quindi, un modello etico che fa leva su principi nudi senza sfumature, e non sulla mutevolezza continua e colorata dei fatti nel mondo. Su valori proclamati assoluti, non sulla responsabilità. È un paradigma che vorrebbe scardinare l’idea stessa di politica, intesa come necessità di porre regole umane al convivere umano. Per farlo, ci sono persone disposte a tutto, anche a distruggere lo Stato di Israele. E si tratta di ebrei.
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