Abu Mazen : l'autunno del patriarca

Palestina, l'autunno del Patriarca


Si deve rispetto al presidente palestinese Abbas per il suo ruolo negli Accordi di Oslo, per il suo rifiuto di ogni forma di violenza e di ricorso alle armi, per la sua coerente scelta di negoziare con Israele, sulla base della strategia "due Stati per due popoli", per essere arrivato alla creazione di uno Stato palestinese. Tuttavia, i recenti sondaggi dimostrano un crollo della sua popolarità, ridotta al 38% e con il 65% che ne richiede le dimissioni.
La ragione è semplice: alla scelta negoziale di Abbas non ha corrisposto un'adeguata volontà israeliana di fare concessioni e di raggiungere un accordo, e la stessa capacità negoziale del presidente palestinese è stata ingabbiata da troppe resistenze interne e internazionali. Ciò ha provocato il fallimento dell'iniziativa di pace del Segretario di Stato Usa John Kerry, nell'aprile 2014, il blocco del processo di pace, la rinuncia a risolvere il conflitto, limitandosi a cercare di gestirlo. La leadership palestinese ha cercato di reagire a questo stallo, tentando la via del riconoscimento internazionale dello Stato palestinese, attraverso l'Un e le sue istituzioni (ultima la Corte penale internazionale dell'Aia), e ha ottenuto alcuni successi, quali il riconoscimento da parte dell'Assemblea Generale dell'Un, nel novembre 2012, dello Stato palestinese come "Osservatore permanente, in qualità di Stato non membro", con una schiacciante maggioranza. Ma per un voto non è riuscita, nel dicembre 2014, a raggiungere il quorum di 9 su 15 votanti necessario per far approvare dal Consiglio di Sicurezza la bozza di risoluzione che prevedeva il riconoscimento della sovranità dello Stato di Palestina e il ritiro israeliano dalla Cisgiordania entro il 2017.
La leadership dell'Olp quindi non riesce a portare avanti la sua strategia negoziale, a procedere su quella del riconoscimento internazionale e non ha una strategia alternativa da proporre. Ciò crea una crisi di credibilità e di fiducia e un distacco crescente dall'opinione pubblica palestinese. In questo contesto si è sviluppato il fenomeno dei lupi solitari, individui o gruppi isolati che attaccano i civili ebrei, armati di coltello o scagliandosi loro addosso con le auto, provocando un alto numero di vittime e di feriti. Un fenomeno che i servizi di sicurezza israeliana trovano estreme difficoltà a controllare. Un fenomeno certamente da condannare, come ogni atto di terrorismo rivolto contro la popolazione civile. È tuttavia evidente che la scelta del premier israeliano Netanyahu di gestire il conflitto invece che provare a risolverlo mostra tutti i suoi limiti e la sua pericolosità.
L'impasse in cui si trova Abbas è aggravato da due fattori: la persistente frattura con Hamas, con la conseguente divisione tra Cisgiordania e Gaza, e la sempre più grave crisi all'interno della Autorità Nazionale Palestinese e di al-Fatah. Dopo il colpo militare del 2007 di Hamas a Gaza, che ha inferto un colpo durissimo alla credibilità della rivendicazione nazionale palestinese, numerosi sono stati i tentativi di ricreare una unità interpalestinese, a partire dall'Accordo della Mecca del 2007, patrocinato dall'Arabia Saudita, all'ultimo, raggiunto a Gaza nell'aprile 2014, che prevedeva nuove elezioni parlamentari e presidenziali, e la riunificazione con Gaza, e anche l'elezione di un nuovo Consiglio Nazionale dell'Olp, con l'ingresso nell'organizzazione di Hamas e del Jihad islamico. Si giungeva così nel giugno successivo alla formazione di un nuovo governo tecnocratico ad interim, guidato dal premier uscente Rami Hamdallah. Ma la realtà è che questo governo e questo accordo non hanno mai funzionato veramente, perché nessuna delle due parti vi è realmente interessata: Fatah non vuole rischiare di perdere le elezioni, di rinunciare al controllo dell'enorme flusso di aiuti internazionali che ancora arrivano in Palestina, e soprattutto al controllo dell'Olp, aprendola alle due organizzazioni islamiche.
Hamas dal canto suo non vuole rinunciare al controllo di Gaza, in cambio di future elezioni che non si sa se si potranno tenere e il cui esito potrebbe ancora una volta non essere rispettato, come accadde nel 2006 dopo la vittoria di Hamas. I continui annunci di accordi interpalestinesi sembrano diretti più a soddisfare le rispettive opinioni pubbliche, sempre più disorientate e confuse, che a corrispondere alla reale volontà delle parti.
A ciò si aggiunge il sempre più aspro scontro dentro al-Fatah, dove un numero sempre maggiore di esponenti contesta l'autoritarismo del presidente Abbas, denuncia la corruzione e chiede la sua sostituzione, con la nomina di nuovi dirigenti alla testa dell'Olp e della stessa Autorità palestinese. Una delle accuse ricorrenti è la continuazione della collaborazione con le autorità israeliane in materia di sicurezza, che malgrado tutto procede a pieno ritmo e senza crisi. Ma la realtà è che quella collaborazione serve anche Abbas per fronteggiare i tentativi di Hamas di prendere il potere anche in Cisgiordania.
Completano il quadro le defenestrazioni di personalità come Yasser Abed Rabbo, segretario generale dell'Olp e Jamal Zakout, leader storico della prima intifada; l'espulsione da al-Fatah di Sufian Abu Zaida, storico leader di Gaza; le critiche di altri leader storici, come Jibril Rajoub, vice segretario del Comitato Centrale di al-Fatah ed ex capo dei servizi di sicurezza in Cisgiordania, nonché dell'ex primo ministro riformatore Salam Fayyad. Su tutti si staglia l'ombra di Mahammed Dahlan, già capo della sicurezza a Gaza fino al colpo di Hamas, che può contare sull'appoggio degli Emirati e, a quanto pare, dello stesso presidente egiziano Al-Sisi. La vecchia leadership dell'OLP è ormai logora, ma non si intravede chi possa incarnare il possibile ricambio e quali potrebbero essere le sue future scelte.
(Questo post è stato pubblicato per la prima volta su "Atlante Geopolitico 2016", edito da Treccani e curato da ISPI)

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