Ramzy Baroud : E’ tempo di porre fine alla “hasbarà”: i media palestinesi e la ricerca di una narrazione comune
Ma’an News – 24 maggio 2016
di Ramzy Baroud
Il
solo fatto di essere insieme a centinaia di giornalisti palestinesi e
ad altri professionisti dei media di ogni parte del mondo è stata
un’esperienza edificante.
Per
molti anni i media palestinesi sono stati sulla difensiva, incapaci di
articolare un messaggio coerente, lacerati tra fazioni e cercando
disperatamente di contrastare la campagna mediatica israeliana, con le
sue falsificazioni e l’instancabile propaganda, o “hasbarà”.
E’
ancora troppo presto per affermare che ci sia stato un qualche
cambiamento di paradigma, ma la seconda conferenza di Tawasol a
Istanbul, che ha avuto luogo il 18 e 19 maggio, è servita come
un’opportunità per prendere in considerazione un vasto cambiamento del
panorama mediatico e di mettere in luce le sfide e le opportunità che i
palestinesi devono affrontare nella loro ardua lotta.
Non
solo ci si aspetta che i palestinesi demoliscano anni ed anni di
disinformazione israeliana, imperniata su un discorso storico irreale
che è stato venduto al resto del mondo come un fatto, ma anche che
costruiscano una propria lucida narrazione che sia libera dai capricci
di fazione e da vantaggi personali.
Ovviamente non sarà facile.
Il
mio messaggio alla conferenza “La Palestina nei media”, organizzata dal
“Forum Internazionale della Palestina per i Media e la Comunicazione” è
che, se la dirigenza palestinese non è capace di raggiungere l’unità
politica, almeno gli intellettuali palestinesi devono insistere
nell’unificare la loro narrazione. Persino il più disposto al
compromesso tra i palestinesi può essere d’accordo sulla centralità
della Nakba, della pulizia etnica dei palestinesi e della distruzione
dei loro villaggi e città nel 1947-48.
Possono,
e devono, anche concordare sull’atrocità e sulla violenza
dell’occupazione; sulla disumanizzazione ai chekpoint militari; sulla
sempre maggiore riduzione degli spazi in Cisgiordania come risultato
delle colonie illegali e della colonizzazione di quanto rimane della
Palestina; sul soffocante dominio nella Gerusalemme occupata;
sull’ingiustizia dell’assedio a Gaza; sulle guerre unilaterali contro la
Striscia di Gaza che hanno ucciso più di 4.000 persone, per la maggior
parte civili, nel corso di sette anni – e molto altro.
Il
professor Nashaat al-Aqtash dell’università di Birzeit, forse più
realisticamente, ha ridotto ulteriormente le speranze. “Se potessimo
anche solo essere d’accordo su come presentare la narrazione riguardo ad
Al-Quds (Gerusalemme) e alle colonie illegali, almeno sarebbe un
inizio,” ha detto.
Il
fatto ovvio è che i palestinesi hanno più cose in comune di quante ne
vorrebbero ammettere. Sono stati vittime delle stesse circostanze,
lottato contro la stessa occupazione, sofferto le stesse violazioni dei
diritti umani e devono affrontare le stesse conseguenze future
determinate dallo stesso conflitto. Tuttavia, molti sono stranamente
incapaci di liberarsi dalle loro affiliazioni di fazione, di carattere
tribale.
Naturalmente
non c’è niente di male nell’avere orientamenti ideologici e
nell’appoggiare un partito politico piuttosto che un altro. Tuttavia ciò
determina una crisi morale quando le affiliazioni di parte diventano
più forti di quelle con la lotta collettiva e nazionale per la libertà.
Tristemente, molti sono ancora intrappolati in questa logica.
Ma
le cose stanno anche cambiando; succede sempre. Dopo oltre due decenni
di fallimenti del cosiddetto “processo di pace” e il rapido incremento
della colonizzazione dei territori occupati, oltre all’estrema violenza
utilizzata per raggiungere questi risultati, molti palestinesi si stanno
finalmente rendendo conto di questi tristi fatti. Non ci può essere
libertà per il popolo palestinese senza unità e senza resistenza.
Resistenza
non deve necessariamente significare un fucile e un coltello, ma
piuttosto l’utilizzazione delle energie di una nazione, in patria e
nella “shatat” (diaspora), insieme alla mobilitazione delle comunità in
tutto il mondo a favore della giustizia e della pace. Ci dev’essere al
più presto un movimento in cui i palestinesi dichiarino una lotta
globale contro l’apartheid, coinvolgendo tutti i palestinesi, la loro
dirigenza, le fazioni, la società civile e le comunità ovunque. Devono
parlare con una sola voce, dichiarare un solo obiettivo e formulare le
stesse richieste, continuamente.
E’
sconcertante rendersi conto che una nazione così offesa per tanto tempo
sia stata così incompresa, mentre i responsabili sono largamente
assolti e visti come vittime. A un certo punto, alla fine degli anni
’50, il primo ministro israeliano David Ben Gurion si è reso conto della
necessità di unificare la narrazione sionista riguardo alla conquista
ed alla pulizia etnica della Palestina.
Secondo
le rivelazioni del giornale israeliano” Haaretz”, Ben Gurion temeva che
la crisi dei rifugiati palestinesi non si sarebbe risolta senza un
sistematico messaggio israeliano secondo cui i palestinesi avevano
abbandonato la loro terra di loro spontanea volontà, seguendo le
direttive di vari governi arabi.
Naturalmente
anche questo era un’invenzione, ma molte supposte verità nascono da una
sola menzogna. Egli diede incarico ad un gruppo di accademici di
presentare la storia assolutamente falsificata, ma coerente, sull’esodo
dei palestinesi. Il risultato fu il documento Doc GL-18/17028 del 1961.
Quel documento, da allora, è servito come pietra angolare dell’
“hasbarà” israeliana relativa alla pulizia etnica della Palestina. I
palestinesi se ne andarono e non furono cacciati, era il punto cruciale
del messaggio. Israele ha continuato a ripetere questa menzogna per
oltre 55 anni e, ovviamente, molti gli hanno creduto.
Finché
solo recentemente, grazie agli sforzi di un crescente gruppo di storici
palestinesi – e di coraggiosi israeliani – che hanno smentito la
propaganda, una narrazione palestinese sta prendendo forma, benché molto
ci sia ancora da fare per controbilanciare il danno che è già stato
fatto.
Infatti,
una reale vittoria della verità ci sarà soltanto quando la narrazione
palestinese non sarà più vista come una “contro-narrazione”, ma come una
legittima storia autonoma, libera dai limiti di un atteggiamento
difensivo e dal peso di una storia carica di menzogne e di mezze verità.
L’unico
modo in cui lo vedo realizzabile è quando gli intellettuali palestinesi
dedicano più tempo e sforzi nello studio e nel racconto di una “storia
popolare” della Palestina, che possa finalmente umanizzare il popolo
palestinese e sfidare la percezione polarizzata dei palestinesi come
terroristi o eterne vittime. Quando la persona comune diventa il centro
nella storia, i risultati sono più pregnanti, efficaci e incisivi.
La
stessa logica può essere applicata anche al giornalismo. Oltre a
trovare le loro vicende comuni, i giornalisti palestinesi devono
raggiungere il mondo intero, non solo il loro tradizionale circolo di
amici e sostenitori affezionati, ma la società nel suo complesso. Se la
gente comprende veramente la verità, soprattutto da un punto di vista
umano, non può certo appoggiare il genocidio e la pulizia etnica.
E
con “il mondo intero” non mi riferisco certo a Londra, Parigi e New
York, ma all’Africa, al Sud America, all’Asia e a tutto il Sud del
mondo. Le nazioni di quell’emisfero possono comprendere pienamente la
sofferenza e l’ingiustizia dell’occupazione militare, della
colonizzazione, dell’imperialismo e dell’apartheid. Temo che
l’importanza attribuita alla necessità di contrastare la “hasbarà”
israeliana in Occidente abbia portato a destinare una sproporzionata
quantità di risorse ed energie in pochi luoghi, ignorando al contempo il
resto del mondo, il cui appoggio è stato a lungo la spina dorsale della
solidarietà internazionale. Non deve essere data per scontata.
Tuttavia
la buona notizia è che i palestinesi hanno fatto notevoli progressi
nella giusta direzione, benché senza il riconoscimento della dirigenza
palestinese. La cosa fondamentale ora è la capacità di unificare, dare
forma e costruire sugli sforzi esistenti in modo che tale crescente
solidarietà si trasformi in un grande successo nel suscitare una
consapevolezza globale e rendere Israele responsabile dell’occupazione e
della violazione dei diritti umani.
Ramzy
Baroud è un editorialista di fama internazionale, scrittore e fondatore
di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un
combattente per la libertà: la storia non raccontata di Gaza.”
Le
opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale dell’agenzia Ma’an News.
(traduzione di Amedeo Rossi)
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