ISRAELE E PALESTINA/ Da Netanyahu a Lieberman, ecco chi lavora contro la pace

In un precedente articolo identificavo nell’involuzione in atto sia all’interno del movimento palestinese che nel governo e in una parte almeno della società israeliana la ragione principale della crescente difficoltà nell’attuare quella soluzione dei “due Stati” ritenuta da decenni l’unica possibile per la questione palestinese.

Questa involuzione, comune a molti Paesi mediorientali, si caratterizza per l’abbandono di posizioni laiche e spesso di sinistra, quantomeno così considerate in Occidente, in favore di una fisionomia della società e delle istituzioni di tipo più confessionale. E’ uno degli elementi emergenti nella società e nella politica israeliane, come dimostrano i ripetuti atti di vandalismo compiuti da estremisti ebrei anche contro luoghi di culto cristiani.

In Israele si aggiunge poi la contrapposizione tra una sinistra ancora legata al movimento sionista degli inizi e una destra, attualmente al governo, apparentemente in via di progressiva radicalizzazione. In questo scenario vanno inquadrate le repentine dimissioni del ministro della Difesa, Moshe Yaalon, anch’egli del Likud come Benjamin Netanyahu ma in aperta rottura con il primo ministro, che ha però giustificato il rimpasto con la necessità di ampliare la maggioranza di governo.

L’attuale coalizione di cinque partiti può contare solo su 61 voti su 120 membri della Knesset ed erano stati avviati contatti con il leader dell’opposizione, Isaac Herzog, capo del partito Zionist Union, al quale Netanyahu aveva offerto l’incarico di ministro degli Esteri, finora tenuto da lui stesso ad interim.

L’eventuale entrata della Zionist Union nella coalizione, con i suoi 24 seggi, avrebbe dato luogo a un forte governo di unità, una sorta di Grosse Koalition, ma segnata da una difficile coesistenza con i partiti confessionali e di destra già presenti nel governo. L’accordo è saltato per la forte resistenza di diversi membri del partito sionista, che lo ritenevano innaturale e controproducente. Herzog ha reagito in modo piuttosto irritato, affermando che erano iniziate concrete discussioni con Netanyahu per giungere a una pace definitiva con i palestinesi. A quanto pare, la base delle trattative era il piano di pace elaborato nel 2002 dall’Arabia Saudita che, opportunamente rivisto e aggiornato, avrebbe portato alla soluzione del problema palestinese e alla normalizzazione delle relazioni israeliane con i Paesi sunniti moderati. Un’ulteriore conferma della “comunione di interessi” tra Israele e Arabia Saudita di fronte al comune nemico iraniano. Il fallimento delle trattative con Herzog ha portato all’accordo con Israel Beteinu (Israele casa nostra), partito laico di estrema destra e sostenuto soprattutto da immigrati russi, che conta 6 deputati alla Knesset. Il suo leader, Avigdor Liberman, nel 2009 era già stato ministro degli Esteri in un precedente governo Netanyahu e ora sostituirà alla Difesa il dimissionario Yaalon.

Questa soluzione, che dimostra il notevole pragmatismo di Netanyahu, sembra confermare la motivazione data da Yaalon alle sue dimissioni: la costante crescita delle componenti estremiste nel governo e nel suo stesso partito, il Likud. Le preoccupazioni di Yaalon, un ex generale, sono condivise anche dai vertici dell’Idf, l’esercito israeliano, secondo quanto riporta il sito Terrasanta.net. All’inizio di maggio, alla vigilia della Giornata dell’Olocausto, il vice capo di stato maggiore della Difesa, generale Yair Golan, ha invitato a dibattere sulla capacità israeliana “di estirpare i semi dell’intolleranza, della violenza, dell’autodistruzione e della decadenza morale”. Queste considerazioni, fatte durante la commemorazione dell’Olocausto, hanno scatenato violente reazioni e un rimbrotto da parte di Netanyahu.

Polemiche analoghe aveva suscitato a febbraio il capo di stato maggiore, generale Gadi Eisenikot, quando aveva messo in guardia i giovani soldati dal ricorso eccessivo alla forza durante gli interrogatori degli aggressori palestinesi. Sullo sfondo vi è il caso di Elor Azaria, un soldato israeliano diciannovenne, filmato il 24 marzo scorso mentre giustiziava a sangue freddo un assalitore palestinese, a terra ferito e immobile. Il soldato è ora sotto processo, ma le manifestazioni in suo favore hanno suscitato reazioni di condanna da parte delle organizzazioni sui diritti umani.

La sostituzione di Yaalon con un estremista come Liberman, che non è peraltro un militare, getta ulteriore benzina sul fuoco e allontana la soluzione della questione palestinese, peggiorando oltre tutto i rapporti già non eccellenti con il governo americano. Questa scelta è stata criticata aspramente da Ehud Barak, un altro militare esponente della sinistra, che fu primo ministro alla fine degli anni 90 e ministro della Difesa nel secondo governo Netanyahu, dal 2009 al 2013. Barak ha espressamente parlato di “germi di fascismo” nel governo israeliano, che si sta sempre più allontanando dallo “spirito dello Stato di Israele e dell’Idf”. Pesanti critiche sono venute anche da Tzipi Livni, già ministro nel precedente governo Netanyahu e ora esponente di punta con Herzog della Zionist Union, che ha parlato di crisi non solo politica, bensì morale.

La pace sembra quindi sempre più un miraggio, ma forse ha ragione Gilad Halpern che, sul sito israeliano +972 Magazine, afferma che sulla base delle precedenti esperienze nulla cambierà e la situazione rimarrà grave come lo è già adesso: in Israele, dice Halpern, vale la regola “più si cambia, più è la stessa cosa”. Vale a dire, ognuno ha la sua versione del Gattopardo.


Caleb J. Wulff

ISRAELE E PALESTINA/ Da Netanyahu a Lieberman, ecco chi lavora contro la pace

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