Se
una qualunque immagine vale mille parole, questa immagine potrebbe
valere mille editoriali sul pericoloso declino della democrazia
israeliana.
di Asher Schechter, 13 maggio 2016
Mercoledì sono iniziati i
festeggiamenti per il 68° Giorno dell’Indipendenza di Israele, con una
cerimonia ufficiale sul Monte Herzl a Gerusalemme, che tradizionalmente
scandisce il passaggio dal lutto solenne del Giorno della Memoria di
Israele all’atmosfera celebrativa dello Yom Ha’atzmaut
(Giorno dell’Indipendenza). La cerimonia, il cui tema quest’anno è stato
l’ “eroismo civico”, ha rispettato tutte le caratteristiche della
tradizione: fuochi d’artificio, discorsi, una cerimonia di accensione
della torcia a celebrazione delle imprese di israeliani che hanno dato
importanti contributi alla società e portabandiera con diversi colori
che formavano i simboli dell’identità nazionale israeliana.
Mentre i soldati passavano da una
formazione raffigurante un sacro simbolo ad un’altra – una colomba della
pace, una stella di David – a un certo punto hanno formato una frase
che avrebbe dovuto sconcertare chiunque avesse una pur minima conoscenza
della storia: “un popolo, una nazione.”
E’ una frase che, se la pronunciate
in tedesco, in Germania, è più che probabile che veniate arrestati per
apologia. Il motivo? E’ più che una piccola reminiscenza di uno slogan
in voga proprio di un certo regime tedesco dagli anni ’30. Di fatto, si
tratta di una traduzione quasi letterale. La differenza è che, quando i
tedeschi hanno originariamente coniato questa frase, essa finiva con le
parole “un Fuhrer”.
Per essere chiari, Israele non è
affatto simile alla Germania nazista in alcun modo e in alcuna forma. Le
persone responsabili di aver inserito l’inquietante frase durante la
celebrazione nazionale di Israele probabilmente lo hanno fatto per
sbaglio, senza alcuna conoscenza del suo precedente utilizzo.
Tuttavia, è difficile immaginare una
raffigurazione più appropriata dei pericolosi processi che stanno
prendendo corpo nella società israeliana – gli stessi processi rispetto a
cui il capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano Yair Golan ha
messo in guardia la settimana scorsa – e dell’ignoranza storica che in
vario modo li alimenta, dell’evocazione inconsapevole di uno slogan
nazista durante le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza di Israele.
Nel respingere risolutamente ogni
similitudine tra la frase e lo slogan nazista, il ministro della Cultura
Miri Regev (che era il responsabile della cerimonia) in qualche modo è
riuscito a peggiorare le cose: “La frase ‘un popolo, una nazione’ è
un’espressione della giusta aspirazione del movimento sionista fin dal
suo inizio: stabilire uno Stato ebraico.” Le similitudini, nondimeno, ci
sono, chiare come il sole. Ciò che ha fatto Regev è ciò che le destre
fanno sempre: contrastare le critiche alle loro azioni confondendole con
l’antisemitismo. Questa impresa è un po’ più ardua da compiere quando
si difende l’ utilizzo di uno slogan nazista invece di ammettere
semplicemente il proprio errore.
Anche in assenza di scomodi
riferimenti storici, la frase “un popolo, una nazione” è molto
sconcertante. Un popolo? Il 20% dei cittadini di Israele sono
palestinesi. Se Israele include solo “un popolo”, che ne è del gruppo
etnico che costituisce un quinto della sua popolazione? E già che ci
siamo, che ne è delle altre minoranze etniche, come i drusi e i beduini?
Che ruolo hanno in questa “unica nazione”?
La frase “un popolo, una nazione” è
l’ultimo degli incessanti tentativi di Israele di negare l’esistenza dei
suoi cittadini arabi. Due anni fa, quando l’Autorità israeliana per la
popolazione, l’immigrazione e le frontiere (PIBA) pubblicò l’annuale
elenco dei nomi di battesimo più popolari in Israele, risultarono in
testa i nomi ebraici Yosef, Daniel e Uri, anche se in seguito si scoprì
che il più popolare nome di battesimo è in realtà Mohammad (un nome che,
come ogni altro nome arabo, non era neppure inserito nella classifica
dei primi dieci).
Il mese scorso un sondaggio condotto
dal giornale israeliano “Hayom” ha rilevato che il 48% dei ragazzi ebrei
israeliani ritiene che gli arabi israeliani non debbano essere ammessi a
candidarsi alle elezioni. Un mese prima, un sondaggio del “Pew Research
Center” ha mostrato che il 48% degli ebrei israeliani pensano che gli
arabi israeliani dovrebbero essere “trasferiti” o “espulsi”.
“Un popolo, una nazione”, dunque, può
essere considerata una dichiarazione di intenti, in un certo senso. I
membri arabo-israeliani della Knesset (Parlamento israeliano, ndt.)
stanno già lottando contro proposte di legge miranti a privare del
diritto di voto gli arabi israeliani, come la “legge di sospensione”,
che consente ai deputati di sospendere altri parlamentari dalla Knesset
con un voto di maggioranza di 90 membri. Questo progetto di legge è
passato in prima lettura a marzo.
L’esclusione e la persecuzione degli
arabo- israeliani erano un tempo il lato nascosto del sistema politico e
giuridico di Israele. Fatti che esistevano, ma che venivano negati. “Un
popolo, una nazione” li porta alla luce nel modo più esplicito che si
possa immaginare: celebrandoli insieme a simboli nazionali come il
calendario a sette bracci e la colomba della pace.
Ma neanche il riferimento storico,
pur inconsapevole, dovrebbe essere sottovalutato. La sua tempistica, una
settimana dopo che Golan è stato “rimproverato” per aver
“ridimensionato” l’Olocausto poiché aveva paragonato certe tendenze
nella società israeliana del 2016 ai “terribili sviluppi” verificatisi
in Germania decenni fa, non potrebbe essere più premonitrice. Quando
Golan ha messo in guardia sui pericoli di tendenze sociali come
“intolleranza, violenza, autodistruzione e decadimento morale”, tendenze
spesso collegate alla nascita del nazismo in Germania, era di questo
che probabilmente voleva parlare.
Non è la prima volta che la foga
antidemocratica di Israele ha inavvertitamente imitato le parole di
illustri anti-semiti. L’anno scorso Benjamin Netanyahu è riuscito ad
ottenere la rielezione mettendo in guardia gli elettori del Likud sul
fatto che “gli arabi si stanno precipitando ai seggi in massa”. Come
riportato da Gilad Halpern sulla rivista +972 di questa settimana,
quelle risultano essere esattamente le stesse identiche parole riferite
agli ebrei nella Polonia dei primi anni del Ventesimo Secolo.
Benjamin Netanyahu è un appassionato
studioso di storia ebraica, ma è sicuramente possibile che non fosse a
conoscenza di questa poco nota citazione, rintracciata dal professor
Yaacov Shavit dell’università di Tel Aviv tra gli scritti di Ze’ev
Jabotinsky (scrittore e leader della destra sionista, principale
riferimento ideologico di Netanyahu, ndt.). Neppure coloro che hanno
piazzato la frase “un popolo, una nazione” nel bel mezzo della cerimonia
del Giorno dell’Indipendenza di Israele, molto probabilmente ne
sapevano di più.
E proprio questa può essere la cosa
peggiore a proposito di tutto ciò. In fin dei conti, le società non
fanno semplicemente una scelta razionale ed informata per diventare
antidemocratiche. Molte volte, questa direzione è ampiamente guidata
dall’ignoranza della storia.
Gli israeliani imparano molte cose a
scuola a proposito dell’Olocausto. Da adulti, sono circondati dalla sua
memoria. Ma gran parte di questa memoria è incentrata sulla
vittimizzazione degli ebrei, su una narrazione che radica gli orrori del
nazismo nelle tradizioni antisemite. Se questo è vero, ciò che manca è
il ricordo dell’intolleranza, della violenza, del nazionalismo
estremista e del degrado morale che condussero quelle tradizioni a
manifestarsi con metodi indicibili. Non si trattava solo di “Juden
raus!”. Ma anche di “Ein volk, ein reich, ein fuhrer.”
Come recita il vecchio adagio, coloro
che non conoscono il passato, sono condannati a ripeterlo. Benché non
ci sia alcun rischio che Israele possa mai assomigliare alla Germania
nazista, sta però prendendo una strada molto inquietante. Non ci
credete? Guardate l’immagine sopra citata. Ora c’è la prova fotografica.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)
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