DONNE (esperienze di vita ad At-Tuwani)

Palestina/Israele
operazione colomba

L
a bellezza e il privilegio di essere nati in Europa vengono serviti con la giusta dose di educato sdegno, a parte, per tutto ciò che non è occidentale. Che grande dono la globalizzazione. Tutto il mondo aperto, tutti liberi di consumare gli stessi prodotti. Quando alle elementari la mia maestra cercò di spiegarci cosa fosse la globalizzazione disse che la coca-cola era nata in America, ma ora poteva essere bevuta anche da noi bambini italiani e addirittura dai bambini indiani. Libertà: la condizione per la quale tutti gli esseri umani del mondo possono bere coca-cola.
Ciò che non viene spiegato però, o che viene lasciato sottinteso- errore gravissimo considerato quanto normalmente ci scanniamo sopra inezie grammaticali per quel tanto ostentato amore per la “verità” e la “giustizia”- è che in realtà quello che la globalizzazione ha in tutti i modi cercato di esportare è un modo unico e possibile di vivere. Il modo occidentale. Sì le differenze esistono ma vengono ridotte a un’attrazione turistica per eccitare menti atrofizzate che cercano il diverso ma non lo vogliono conoscere. Se sei cresciuto in un contesto sociale più “aperto” credi, e speri, che tutto questo non ti tocchi, di aver mantenuto la tua libertà di vedere il mondo per quello che è in tutte le sue declinazioni. Il libero pensatore (o il così detto libero viaggiatore) che si pone su questo piedistallo di illuminismo è costretto a un duro bagno di realtà quando inizia davvero a vivere a contatto stretto e prolungato con un mondo diverso. Tutti i riferimenti a fatti e persone sono assolutamente voluti.
Cosa succede quando una poco più che ventenne, con un certo quantitativo di fiero femminismo, conosce davvero per la prima volta il mondo femminile islamico delle South Hebron Hills? Si fa delle amiche. Scopre anche che il femminismo può manifestarsi nelle forme più inaspettate. La ragazza italiana poco più che ventenne è abituata ad andare in giro in shorts quando fa caldo, è abituata a parlare con i ragazzi come se fosse una di loro, sopratutto è abituata a scherzare e ridere senza curarsi della percezione che il mondo esterno (maschile) può avere di lei.
Le regole nuove da adottare sono tante e paralizzanti. Cerca di non ridere troppo forte; non dare la mano a un uomo per salutarlo a meno che non te l’abbia data prima lui; se sei donna non si fuma per la strada e sicuramente non se ci sono degli uomini in casa; pantaloni larghi, lunghi e maglie idem; non andare ad aprire la porta se sei in pigiama a maniche corte; non dare la schiena agli uomini mentre servi il tè, potresti piegarti troppo; se ti siedi sullo stesso divano con un uomo metti una certa distanza fra di voi, non farlo se c’è il rischio che vi tocchiate; non mangiare dallo stesso piatto di un uomo sposato. Facciamo così, mi metto in un angolino così evito di fare danni. Passato il periodo di noviziato queste regole diventano la normalità, impari anche ad apprezzare quello spazio personale che ti viene riconosciuto in quanto essere femminile. A dirla tutta, essere donne ha i suoi vantaggi, nessuno ti chiederà di fare lavori faticosi a meno che tu non lo voglia e le serate passate fra ragazze sono molto più stimolanti che giocare a carte e fumare narghilè. Il mondo femminile di At-Tuwani non è così immediato, ci si entra bussando, togliendosi le scarpe e osservando. Quando vedi cosa è nascosto dietro quelle porte inizi a chiederti, ma noi in fondo cosa ne sappiamo? La sopportazione mal celata che ci hanno insegnato per tutto quello che non è occidentale, sopratutto per quello che è islamico, ci rende davvero più libere? Anche con il velo e il forte controllo maschile comunque la prima cosa che mi è stata detta qui da S. (amica e vicina di casa) è stata: “qui i soldati più che degli uomini hanno paura delle donne, perché gli uomini sono ok, ma noi, noi siamo la vera forza!”.
E’ stata sempre S. a dirmi che adesso, con il fiorire dei 18 anni, non è il tempo per innamorarsi, questo è il tempo per fare altre cose, per andare all’università, per viaggiare, se si può, perché “se sprechi tutto il tempo a innamorarti il tuo cuore e la tua mente si stancheranno e poi come farai a riconoscere la persona giusta? Gli uomini sono volubili e non è detto che ci siano per sempre, bisogna imparare a proteggersi usando il cervello”.
Abbiamo demonizzato l’uso del velo, abbiamo rigurgitato fiumi d’inchiostro sull’incivile sottomissione della donna nei Paesi arabi, abbiamo gridato al patriarcato maschilista, ma ci siamo mai chiesti se, in fondo, fosse compito nostro eleggerci paladini di questa battaglia? Siamo così certi che il nostro modo di vivere sia l’unico possibile che non ammettiamo l’ipotesi che forse il cambiamento, quando avverrà, potrebbe andare in un’altra direzione e noi non ne faremo parte. Come donna europea sono felice di non dovermi sposare per forza, di poter scegliere il mio futuro a prescindere dal parere di mio padre o di mio fratello, ma allo stesso tempo questo non mi fa sentire più o meno donna di S. o di A. Non mi metto gli shorts da un paio di settimane, mi vesto con abiti lunghi e larghi, quando sono l’unica donna nella stanza a volte divento trasparente, e no, non posso andare a fare il bagno al pozzo con gli altri ragazzi anche se fuori ci sono 40 gradi all’ombra, ma mi sento comunque rispettata e ascoltata.
Quando K. si è sposata a 16 anni era terrorizzata all’idea di venire ad abitare ad At-Tuwani dove mancavano la luce e l’acqua corrente, col passare degli anni però ha imparato ad amare questa terra di pastori e contadini, si è guardata intorno e ha visto che poteva fare qualcosa per cambiare le condizioni delle donne della zona, così nel 2004 ha fondato la “cooperativa delle donne”. Il progetto le ha portate a produrre e vendere oggetti della tradizione palestinese e con il ricavato a dare sostegno all’emancipazione femminile, per esempio aiutando le ragazze che vogliono andare all’università.
A quanti mi chiederanno “cosa sei andata a fare in Palestina?” io risponderò: niente. Non sono andata a fare proprio niente. Per una volta mi piacerebbe che la domanda fosse “cosa hai imparato in Palestina?”. Per capire il conflitto, per metterci su un cammino di pace, dobbiamo smettere gli abiti da angeli scesi a portare democrazia, giustizia, libertà (e simili) che ci rendono sordi e ciechi alle vere richieste che ci arrivano e ci porranno sempre un gradino più in alto rispetto alle persone che andiamo a trovare. Imporre la propria visione della libertà è di fatto una violenza. Avere l’umiltà di riconoscersi uomini fra gli uomini, quindi di trovare insieme una strada per la giustizia, è la prima pietra fondamentale per costruire un mondo che non affondi nell’ingordigia ma che abbia cura di tutte le sue differenze. L’appiattimento portato dalla globalizzazione viola il diritto dell’essere umano ad essere unico e irripetibile. Resistere a questo appiattimento vuol dire riconoscere l’esistenza di tutti i popoli, di tutte le culture, di tutte le differenze. Resistere è forse la più grande forma di pacifismo.

M.

DONNE (esperienze di vita ad At-Tuwani)




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