Mia nonna è una sopravvissuta del massacro di Deir Yassin. Sessantasei anni dopo, le sue cicatrici continuano a testimoniarlo.
Deir Yassin è un nome inscritto indelebilmente nella narrativa palestinese.
Quella di venerdì 9 aprile 1948 è una data che resterà per sempre incisa con infamia nella storia.
nonna dell’autrice davanti alla casa della sua famiglia a Deir Yassin. (Dina Elmut)i
Il massacro di Deir Yassin, inoltre,
rappresenta un punto di svolta nella storia palestinese, e resta ancora
oggi un simbolo di espropriazione, continua rimozione e capacità umana
di compiere crudeltà.
Ero in Palestina la scorsa estate,
quando mia nonna mi ha mostrato le pietre della sua casa di Deir Yassin,
dove nacque 76 anni fa, e i miei occhi hanno catturato il segno di una
cicatrice chiara, sul suo braccio.
Mentre raccontava di quei giorni, la
nostalgia nella sua voce era così forte che quasi potevo vedere le
barbare scene di terrore, come ci fossero mostrate in un film (…).
Un tempo, il villaggio ospitava circa
750 persone. Poco fuori Gerusalemme, e a poche centinaia di metri
dall’insediamento israeliano di Givat Shaul, era conosciuto per la sua
fama pacifica e per le cave di pietra.
UNA CARNEFICINA
All’alba del 9 aprile, le organizzazioni terroriste sioniste conosciute come Irgun e Banda Stern
fecero irruzione nel villaggio, irrompendo nelle case e massacrando
quante più persone possibile. Le vittime comprendevano giovani uomini
disarmati, donne in gravidanza, bambini.
Pile di corpi dati alle fiamme e
carbonizzati furono gettati nelle fosse, le case riempite di cadaveri
colpiti da proiettili, le pareti macchiate di sangue.
Ogni primavera, I mandorli in
fiore riempivano l’aria con la dolce fragranza dei loro fiori. Ma quella
sera, quel venerdì, il soffocante odore di sangue e corpi bruciati
permeava ancora l’aria.
Più di 100 persone furono assassinate
quel giorno. Ma la carneficina non era abbastanza agghiacciante per i
suoi responsabili, che esagerarono raddoppiando il numero delle vittime
parlando con i giornalisti con lo scopo di disseminare il panico e il
terrore in tutto il paese.
Per l’espulsione di massa che
testimoniò, Deir Yassin segna il punto di avvio per l’attuazione delle
politiche sioniste, volte a cancellare la popolazione indigena da tutta
la Palestina, non solo da Gerusalemme.
La catastrofe di quell’anno provocò
l’esodo di oltre 750mila persone dalle proprie case. Oggi, i palestinesi
rappresentano la più vasta popolazione di rifugiati del mondo, con
oltre 5milioni e 300 mila persone lontane dalle proprie terre.
“SCIVOLATA SUI BOSSOLI”
Mia nonna ha indicato verso un campo da
basket dove una volta, dice, sorgeva la cava di pietra. Chiudendo gli
occhi, ho cercato di ricostruire i particolari di questo luogo della
memoria. Ma guardando dal balcone di casa, li ho riaperti sulla realtà
degli insediamenti israeliani.
Non ci sono parole per
descrivere l’agonia di sapere che, per permettere ai coloni di chiamare
questo posto “casa”, sia stato necessario rimuovere i suoi proprietari
originari dalle loro stesse coscienze.
“Mio padre costruì questa casa, pietra
dopo pietra”, racconta mia nonna. “La mattina del massacro, mi sono
precipitata per le scale per prendere dalla culla Jamal (il suo
fratellino minore). Ma sono scivolata sui bossoli, tagliandomi qui, sul
braccio”, indica.
Una volta fuori, lei e i suoi quattro
fratelli si misero a correre per raggiungere la loro maestra, Hayat
al-Balbisi. “Mi fasciò il braccio destro e mi afferrò per il sinistro”,
racconta. “Prendendo Jamal tra le braccia corse verso il gruppo di
persone in fuga per Ein Karem (un villaggio vicino). Ci spiegò di
restare con il gruppo prima di scappare via per soccorrere una donna
ferita. Mi voltai indietro per guardare lei e la nostra casa un’ultima
volta”.
Al-Balbisi, una maestra di
villaggio, costituì la prima area di soccorso quella mattina, per
aiutare gli abitanti feriti. Aiutò un gran numero di persone
sopravvissute al massacro prima che i terroristi sionisti le sparassero
alla testa, fuori dalla casa di mia nonna. Aveva 18 anni.
In seguito al massacro i rifugiati
scapparono verso Gerusalemme Est, portando con sé incomprensibili
memorie di morte e distruzione. “Quando ci riunimmo con mia madre, tre
giorni dopo, ci raccontò di come i sionisti avevano tenuto prigioniera
lei e altre donne nella panetteria, mostrando orgogliosamente grandi
pugnali bagnati del sangue di altri”, racconta mia nonna.
“TUTTO DISTRUTTO”
La cugina di mia nonna, Naziha Radwan,
aveva 6 anni quando avvenne il massacro. E’ sopravvissuta grazie al
sangue di sua nonna, coprendosi con il suo corpo e nascondendosi tra i
cadaveri accartocciati facendo finta di essere morta.
Camminando lungo la strada in terra
battuta, mia nonna mi ha condotto verso la casa di sua zia paterna,
Basma Zahran, e qui si è scontrata con un’altra tragedia. “Lei e i suoi
quattro figli sono stati fucilati e i loro corpi sotterrati lì”, ha
spiegato. “Tre bambine e un neonato, con sole poche ore di vita”.
Scuotendo la testa incredula, ha
aggiunto: “Prima del massacro avevamo buone relazioni con gli ebrei di
Givat Shaul. Condividevamo il cibo, festeggiavamo insieme, ci
scambiavamo le condoglianze l’un l’altro, così come ci si prendeva cura
dei bambini dell’altro. C’era la pace qui prima che i sionisti
arrivassero e distruggessero tutto”.
Una leggera brezza si è
sprigionata nell’aria mentre raccogliamo le mandorle dall’albero
piantato dal mio bisnonno. Mi sono sentita rinascere grazie al legame
che ho con questa terra, che rimane indissolubile, non negoziabile.
Disturbato dalla nostra presenza, un
colono ci ha raggiunto e ci ha chiesto che cosa stessimo facendo.
L’ironia è qualcosa che mia nonna non ha perso.
“Sto raccogliendo le mandorle dal mio albero”, ha risposto,” piantato fuori casa mia”.
Il colono se n’è andato, indietreggiando di fronte alla presenza di mia nonna.
Momenti del genere mi ricordano
che non solo la tragedia, ma anche la speranza pervadono questo suolo.
La Palestina non è mai stata un vuota “terra senza popolo”, e non lo
sarà mai.
Gli aggressori ritengono che i
sopravvissuti prima o poi dimenticheranno. Ma si prendono in giro da
soli, più di qualunque altro.
I nostri racconti rimangono
indistruttibilmente intessuti nella struttura della nostra esistenza,
trapiantati nelle nostre ossa e configurati nel nostro Dna, tramandati
di generazione in generazione.
Non dimenticheremo mai cosa è successo a Deir Yassin il 9 aprile 1948. E continueremo a raccontare le nostre storie.
*Dina Elmuti è
un’assistente sociale. Svolge ricerche sugli impatti dello stress
traumatico e cronico e della violenza sulla salute fisica, mentale e
psicosociale dei bambini a Chicago e in Palestina.
*La traduzione dall’inglese
è di Cecilia Dalla Negra e Stefano Nanni. Per la versione originale
dell’articolo, pubblicato su Electronic Intifada, clicca qui.
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