L’Intifada palestinese: sei mesi, sei osservazioni

L’Intifada palestinese: sei mesi, sei osservazioni

Gli ultimi sei mesi hanno evidenziato chiaramente il ruolo problematico dell’Autorità Palestinese come ‘sub-contractor’ dell’occupazione israeliana, spiega Alaa Tartir

di Alaa Tartir – Middle East Eye
Ramallah, 21 aprile 2016, Nena News - Quali sono alcune considerazioni chiave che possono essere tratte dal ciclo di violenza e scontri che ha preso luogo in Israele e Palestina dall’ottobre 2015? Ci sono almeno sei conclusioni possibili.
Innanzitutto, gli ultimi mesi hanno mostrato quanto i partiti palestinesi – provenienti da tutto lo spettro politico – siano deboli e privi di legittimità. Le fazioni ‘storiche’ hanno fallito nel garantire la rappresentazione e il supporto istituzionale necessario ai giovani palestinesi, i quali hanno riversato un’ondata di rabbia contro le forze multiple dell’oppressione. Questi numerosi fallimenti non sono soltanto dovuti alle disfunzionalità o alle inefficienze di tali partiti, ma anche alla mancanza di volontà politica e al fatto che le loro leadership e i loro programmi sono considerati illegittimi e irrilevanti per il popolo palestinese.
La debolezza dei tradizionali partiti politici non è un fattore esogeno, ma piuttosto un risultato delle trasformazioni interne che hanno preso luogo nelle strutture politiche palestinesi, nei programmi e nelle forme di governo. In particolare, questi mutamenti hanno avuto luogo dopo il 2007, all’indomani della spaccatura intra-palestinese e come conseguenza sia del progetto di state-building in Cisgiordania e del consolidamento di potere nell’assediata e occupata Striscia di Gaza.
Secondariamente, gli ultimi mesi illustrano in modo molto chiaro il ruolo problematico dell’autorità palestinese come ‘sub-contractor’ dell’occupazione israeliana, ogni qual volta si parli di sicurezza. A dispetto dell’accesa retorica adottata dalla leadership dell’OLP (non dal suo portavoce), riguardo l’interruzione della collaborazione con Israele sul piano della sicurezza, si tratta tuttavia di una prospettiva surreale che ha preso piede soltanto negli ultimi sei mesi in quanto celebrata con orgoglio dalla leadership degli apparati di sicurezza.
Le reazioni dell’Autorità Palestinese e delle sue forze di sicurezza sono tra le cause principali per cui l’attuale ondata di rabbia sta perdendo una dimensione collettiva, diventando più incline all’azione individuale. L’Autorità Palestinese, che è per definizione e profilo una struttura anti-rivoluzione e anti-liberazione, ha aggiunto un ulteriore ostacolo alla possibilità dei giovani palestinesi di ribellarsi in nome della realizzazione dei propri diritti politici e umani. Il ruolo controverso di tale attore diventa più esplicito nei momenti di rivolta, poiché viene fatta valere la responsabilità fondamentale di ‘occupare e garantire sicurezza’.
La terza considerazione riguarda la gioventù palestinese che sta fronteggiando un alto livello di disoccupazione – tra il 30 e il 40% – ed è frustrata, arrabbiata e stanca di continui fallimenti e della mancanza di un orizzonte futuro. Tale livello di frustrazione e smarrimento è stato visto da molti osservatori esperti di sicurezza come una minaccia alla stabilità della regione e come una fonte di radicalizzazione che rischia di spianare la strada all’Isis in Palestina e Israele.  L’infondatezza di tale conclusione può essere provata attraverso i risultati dei sondaggi più recenti, che chiaramente mostrano come non ci sia spazio o un clima favorevole all’Isis.
A marzo 2016, un sondaggio del Jerusalem Media and Communication Center ha evidenziato opinioni fortemente negative nei confronti dell’Isis, sia in Cisgiordania che a Gaza. L’82% degli intervistati aveva un giudizio negativo di ciò che l’Isis sta facendo, mentre un’ampia maggioranza è convinta che lo Stato Islamico nuoccia alla causa palestinese. Un’altraricerca, condotta alla fine di marzo 2016 dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, ha invece mostrato come l’88% dei palestinesi veda l’Isis come un gruppo radicale non rappresentativo del vero Islam.
Il quarto punto si rivolge alle leadership di Fatah e Hamas, che a dispetto dei sacrifici della gente, si rifiutano ancora di raggiungere una genuina riconciliazione. La spaccatura interna al fronte palestinese non è stata toccata dalle azioni dei giovani che hanno scelto di agire negli ultimi mesi. Ciò evidenzia quanto l’attuale situazione sia conveniente per le due parti in causa, che sembrano prediligere le dinamiche regionali rispetto a quelle locali.
Il recente incontro di riconciliazione/condivisione di potere avvenuto a Doha – che ha avuto luogomentre infuriava la recente rivolta giovanile – ha dato prova della scarsa volontà di entrambi i partiti, Fatah e Hamas, di scendere a compromessi; quindi della loro determinazione a far fallire un accordo. Nell’attuale scenario politico, il programma di riconciliazione potrà essere implementato solo attraverso il consenso popolare.
La quinta osservazione guarda agli eventi degli ultimi sei mesi e a come questi mostrino un enorme divario tra la gente comune e l’élite, tra le voci che provengono dal basso e quelle della leadership. Tale divario dimostra quanto le azioni e i discorsi della leadership attuale siano distanti dalle domande e dalle aspirazioni del popolo palestinese, per chi vive in Cisgiordania e a Gaza sotto occupazione, ma soprattutto per i membri della diaspora e per coloro che vivono in esilio dal 1948.
La recente intervista televisiva che il premier palestinese Rami al-Hamadallah ha rilasciato all’emittente tedesca DW o quella rilasciata dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen a Israeli Channel 2 illustrano in modo molto evidente tale divario. L’incapacità del primo ministro di riconoscere la realtà dei fatti quando l’Autorità Palestinese è coinvolta, e le insolite dichiarazioni del presidente sulla collaborazione nel campo della sicurezza e della natura violenta dei palestinesi, indicano che la leadership e la gente possono ormai convivere a fatica. Questa osservazione non dovrebbe sorprendere nessuno, dal momento che è una caratteristica di tutti i sistemi politici che non pongono la gente al centro del proprio progetto, e che sostengono se stessi tramite pratiche non democratiche e autoritarie.
Infine, alcuni osservatori speculano sull’eventualità che i gruppi armati possano assumere un ruolo guida nelle future traiettorie dell’attuale ondata di rabbia. Tuttavia, tali ipotesi trascurano due questioni nodali, relative alle conseguenze della riforma degli apparati di sicurezza palestinesi e ai convenzionali dialoghi di pace che seguono ogni protesta palestinese.
Nel quadro del progetto di state-building perseguito dall’autorità palestinese dopo il 2007, la questione della sicurezza fu anteposta a quella economica-finanziaria. Le campagne promosse sul tema della sicurezza e del disarmo – soprattutto quelle condotte nei “castelli della resistenza” della Cisgiordania occupata – miravano a criminalizzare la resistenza armata, e a sottrarre ai gruppi armati gli strumenti per contrastare l’occupazione militare israeliana. Il parziale raggiungimento di questi due obiettivi ha conseguenze dirette sulle capacità dei gruppi armati legati ai partiti politici di ricoprire il loro ruolo militare. Questa conclusione chiave, a dispetto della sua chiarezza apparente, non è adeguatamente riconosciuta nella maggiore dei circoli politici.
Tuttavia, vale anche la pena notare che a causa della faida interna a Fatah e delle dinamiche regionali, i palestinesi potrebbero trovarsi costretti a fare i conti con scontri violenti e sanguinosi, come conseguenza di una competizione per il potere. Gli attori di questa gara, soprattutto all’interno di Fatah – ancora una volta –, stanno mettendo al primo posto le proprie ambizioni personali e regionali a scapito del popolo palestinese, della sua sicurezza e della sua battaglia.
Infine, gli ultimi trent’anni dimostrano come i cicli di scontro e rivolta siano seguiti da discorsi e progetti di pace. Le attuali voci sull’iniziativa di pace promossa dalla Francia ne sono la riprova. Si sa molto poco, ma è chiaro come i parametri di pace rimangono ancorati ai fallimenti del passato, con le vecchie regole di gioco e gli stessi attori fallimentari che si ripropongono nell’industria della pace. Non c’è ragione di essere ottimisti.
Traduzione a cura di Giovanni Pagani

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