I
risultati della necroscopia resi noti ieri mostrano che il giovane 21
palestinese era ancora vivo prima di essere ucciso a Hebron lo scorso 24
marzo. Demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme est e in
Cisgiordania
di Roberto Prinzi
Roma, 4 aprile 2016, Nena News – Era ancora vivo il 21enne Abd al-Fattah as-Sharif
prima di essere ucciso a distanza ravvicinata da un soldato israeliano
il 24 marzo scorso a Hebron. “I risultati dell’autopsia erano
prevedibili. Quello che il mondo intero ha visto nel video già era di
per sé sufficiente, la necroscopia lo ha solamente confermato” ha
affermato con amarezza il dottore palestinese Rayan al-Ali,
presente durante l’esame necroscopico compiuto presso l’Istituto
israeliano di medicina forense a Abu Kabir, vicino a Tel Aviv. Un’esame a
cui al-Ali ha potuto solo assistere e che non ha eseguito per via di un
ordine della Corte suprema israeliana.
I risultati dell’autopsia non presentano nulla di nuovo, ma
confermano quanto già appare evidente nel video dell’organizzazione
israeliana B’Tselem dove si sentono i soldati israeliani
gridare in ebraico: “il cane [as-Sharif, ndr] è ancora vivo” e
l’imputato affermare: “il terrorista merita di morire”. Il dato più
interessante che è emerso ieri, però, è che il colpo mortale è stato
sparato a distanza ravvicinata e ciò, secondo alcuni commentatori,
avallerebbe la tesi secondo cui as-Sharif è stato “giustiziato”.
L’aspetto più importante che ora resta da dimostrare all’accusa è se il
palestinese a terra, già colpito dai soldati dopo aver accoltellato un
militare, rappresentava o meno una “minaccia” per l’incolumità degli
israeliani. Stando a quanto mostra il breve filmato – dove si vede
nitidamente uno dei militari allacciarci le scarpe proprio vicino ad
ash-Sharif mentre affianco al giovane agonizzante passano alcuni coloni
israeliani – sembrerebbe di no.
E’ proprio sulla questione della “pericolosità” della vittima che si sta muovendo la difesa del soldato-killer
(il cui nome non è stato reso noto dalla stampa locale). Una difesa
raffazzonata e contraddittoria. In un primo momento l’imputato ha
dichiarato che as-Sharif era una “minaccia” per i militari perché poteva
azionare la cintura esplosiva (che, però, non ha mai indossato). Poi la
versione è cambiata e la difesa ha parlato di un coltello vicino ad
as-Sharif che il giovane avrebbe potuto utilizzare per compiere
un’ulteriore aggressione.
Nonostante le dichiarazioni contraddittorie, la tesi del
soldato è stata già parzialmente accolta dalla corte militare israeliana
che sta indagando sul caso: chi ha sparato, infatti, sarà processato
per omicidio colposo e non doloso perché ha agito senza intenzionalità. Che tradotto vuol dire: non è stata commessa una esecuzione a sangue freddo. Non solo, venerdì il soldato è stato condotto anche in una base militare nella Valle del Giordano (non in un carcere quindi) dove sconterà una detenzione “aperta” e potrà ricevere le visite dei familiari. Quello che pare emergere in queste prime fasi processuali è una spaccatura tra il procuratore militare Zagagi-Pinhas e i vertici dell’esercito (e in parte della corte) che, invece, sembrano far quadrato attorno all’accusato.
Zagagi-Pinhas ha usato parole molto dure contro l’uccisore di
as-Sharif: “[il soldato] ha dato risposte evasive a domande sorte dalla
sua versione dei fatti. I suoi continui cambiamenti di versione hanno
sollevato dubbi sulla credibilità delle richieste della difesa. ”
tuonava qualche giorno fa. “Il quadro su cui si basano i sospetti contro
di lui – aggiungeva – è molto chiaro: il soldato ha detto più volte che
il terrorista ha provato a raggiungere il coltello mentre il video
mostra una situazione diversa, con il coltello a una distanza
significativa dal terrorista che è in grave condizioni. Il video parla
da solo. Il terrorista non rappresentava alcuna minaccia: nessuna delle
altre persone sulla scena erano allarmate. Il militare ha mostrato
indifferenza nel colpire il terrorista e lo ha fatto senza avvertire
prima i commilitoni e i comandanti”. La durezza di Zagagi-Pinhas, però,
sembra cozzare con la “morbidezza” finora mostrata da chi dovrà emettere
la sentenza finale sul caso.
Un caso che ha avuto ampia eco internazionale. “Siamo preoccupati che questa uccisione potrebbe non essere stata solo un episodio isolato – dichiarava alcuni giorni fa l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Rupert Colville
– tutti gli incidenti dove le forze di sicurezze [israeliane] hanno
provocato la morte o il ferimento [degli aggressori] saranno pienamente
indagati e i responsabili saranno chiamati a rispondere delle proprie
azioni”. Riesaminare tutti i casi appare una pia illusione. Di sicuro
Colville non è il solo a livello internazionale che accusa Israele di
aver compiuto “omicidi extragiudiziari”. Dubbi sono stati espressi la
scorsa settimana anche dal senatore del Vermont, Patrick Leahy, e da 10
membri della Camera dei Rappresentanti Usa che hanno anche firmato una
lettera in cui denunciano le “sospette esecuzioni extragiudiziali”
compiute recentemente dalle forze armate israeliane.
E una lettera, alcuni mesi fa, l’avevano firmata anche
diverse famiglie di aggressori palestinesi (veri e presunti) uccisi in
questi ultimi mesi dall’esercito israeliano. Il motivo?
Chiedere alle autorità israeliane di compiere le autopsie sui corpi dei
loro cari ammazzati nel corso di quelle che i palestinesi chiamano
“operazioni”, ma che gli israeliani considerano “atti di terrorismo”.
Non una pura formalità volta soltanto a stabilire i casi dei decessi, ma
una vera e propria richiesta politica: i risultati ufficiali degli
esami necroscopici, infatti, sono necessari per denunciare Tel Aviv alla
Corte penale internazionale. Nella lettera, le famiglie chiedevano
anche la presenza di un dottore palestinese durante l’esecuzione delle
autopsie data la scarsa fiducia nutrita nei confronti delle istituzioni
israeliane. Una sfiducia che deriva, sostengono le associazioni
umanitarie locali, dall’impunità che viene offerta agli israeliani in
caso di violenze contro i palestinesi.
Mentre le indagini proseguono, i bulldozer israeliani sono
tornati all’azione stamane in Cisgiordania e a Gerusalemme est dove sono
state demolite cinque case palestinesi perché costruite “senza
permessi”. Le demolizioni sono avvenute nel villaggio di Surif
(nord di Hebron), a Khirbet al-Marajiim (Nablus) e nel quartiere di
Jabal al-Mukabbir (nella parte occupata di Gerusalemme est).
Ma “l’illegalità” nelle costruzioni non è l’unico motivo dietro la distruzione di case palestinesi: oggi
tre abitazioni nel villaggio di Qabatiya (a sud di Jenin) sono state
rase al suolo come “punizione” per un attacco armato compiuto lo scorso
febbraio a Gerusalemme da tre giovani del luogo (poi uccisi). Nena News
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir
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