La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme
La nuova pericolosa tattica israeliana di deportazione da Gerusalemme
Di : Munir Nuseibah
Israele
è esperto nel creare nuovi rifugiati e sfollati interni palestinesi,
approfittando di ogni opportunità per farlo e sfruttando crisi
momentanee per promuovere misure permanenti.
Ora
sta utilizzando le recenti violenze nei Territori Palestinesi Occupati
(TPO) per introdurre un nuovo cambiamento nella sua politica di lunga
data di revoca del permesso di residenza per espellere i palestinesi da
Gerusalemme est.
Questo
nuovo concetto (“tradimento della fedeltà” allo Stato di Israele) è ora
utilizzato per revocare la residenza ai palestinesi gerosolimitani,
oltre alla possibile demolizione delle loro case. Il governo israeliano
sta presentando queste azioni come misure di normale applicazione della
legge, ma alcuni studi mostrano che sono parte della sua continua
politica di espulsioni forzate, con lo scopo di produrre cambiamenti
demografici a lungo termine e di garantire una schiacciante maggioranza
ebraica a Gerusalemme. Il sistema giudiziario israeliano e i comandi
dell’esercito fin dal 1948 [anno di nascita dello Stato di Israele.
Ndtr.] hanno utilizzato una serie di metodi per ridurre al minimo il
numero di palestinesi nelle aree cadute sotto controllo israeliano, come
ho descritto in uno dei primi editoriali di Al-Shabaka (“Decenni di
espulsione dei palestinesi: come Israele lo ha fatto”).
Queste
misure hanno incluso l’uso della forza delle armi, restrizioni allo
status civile dei palestinesi, restrizioni al diritto di costruire ed
espropriazione delle proprietà (soprattutto beni immobili), tra gli
altri, per obbligare la maggioranza della popolazione palestinese a
diventare rifugiata o sfollata interna. L’ultimo cambiamento israeliano
rappresenta un punto di svolta che probabilmente produrrà migliaia di
nuove vittime del trasferimento di popolazione. Si tratta della terza
svolta normativa di questo tipo nei tentativi israeliani di “sfoltire”
la popolazione palestinese di Gerusalemme, come si discuterà più sotto.
Lo spostamento forzato dei palestinesi è parte del sistema giudiziario
israeliano: deve essere compreso e avversato in modo più deciso
dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e dalla
comunità internazionale come è stato fatto dalle organizzazioni per la
difesa dei diritti umani in una nuova campagna.
I primi due punti di svolta: “Il centro della vita”
La
continua politica di Israele di revoca della residenza si basa sulla
posizione sempre più esplicita che i palestinesi a Gerusalemme non sono
altro che immigrati stranieri che possono essere facilmente spostati
fuori da quello che Israele considera il suo territorio legittimo. Dopo
che Israele ha occupato e annesso illegalmente Gerusalemme est durante
la guerra arabo-israeliana del 1967, ha considerato i gerosolimitani
palestinesi “residenti” in Israele, senza diritto di voto per il
parlamento israeliano, in modo da evitare di aggiungere un notevole
numero di non-ebrei tra i suoi cittadini. Con il passare del tempo, il
ministero dell’Interno, con il consenso della Corte Suprema israeliana,
ha sviluppato sistemi creativi per revocare questo precario status. In
seguito a ciò, dal 1967 più di 14.000 residenze a Gerusalemme sono state
revocate, molte delle quali dopo il cosiddetto processo di pace
iniziato nei primi anni ’90.
I governi israeliani che si sono succeduti hanno accuratamente scelto la tempistica di nuove modifiche
normative per ampliare le possibilità di revoca della residenza,
prendendo a pretesto crisi puntuali per farlo. Due importanti casi
aiutano a definire i pilastri dell’attuale sistema di revoca della
residenza. Il primo è stato il caso dell’attivista pacifista Mubarak
Awad, andato negli Stati Uniti nel 1970, dove si sposò con una cittadini
americana. Awad era attivo nel promuovere la resistenza nonviolenta
prima e durante la Prima Intifada, la rivolta popolare palestinese tra
il 1987 e il 1991. Nel 1987 fece domanda al ministero dell’Interno per
rinnovare la propria carta d’identità come residente a Gerusalemme solo
per apprendere che la sua residenza israeliana era stata revocata in
seguito al fatto che viveva negli USA ed aveva ottenuto la cittadinanza
americana. Con il senno di poi, ciò è particolarmente ironico ora che
circa il 15% dei coloni che espellono i palestinesi nei TPO sono ebrei
con doppia cittadinanza americana e israeliana.
Di
conseguenza Awad presentò una petizione alla Corte Suprema israeliana
in cui spiegava che il suo diritto di vivere nella sua città natale non
avrebbe dovuto essere compromesso per il fatto di trovarsi all’estero.
Egli affermò che i palestinesi gerosolimitani dovrebbero avere uno
status irrevocabile di residenti, dal momento che non possono essere
considerati semplici immigrati in Israele. La Corte Suprema rigettò i
suoi argomenti e approvò la revoca della sua residenza. Con una sentenza
che ha dell’incredibile, la Corte affermò che le sue idee politiche
erano state un fattore che il ministero dell’Interno aveva preso in
considerazione quando aveva deciso di revocare la sua residenza.
Per
dare un fondamento a questo argomento, il ministero aveva allegato il
parere di un ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shabak), con
lo pseudonimo di “Yossi”, che affermava che Awad sosteneva la soluzione
di uno Stato unico e invocava la disobbedienza civile. Benché la Corte
non abbia fondato esplicitamente la sua decisione su questo parere, vi
fece frequentemente riferimento nella sua sentenza. Creando un nuovo
precedente, la Corte decise che lo status di residente potesse essere
negato quando il “centro della vita” di un residente non era più in
Israele. Al di là del dramma personale di Awad, ciò che è
particolarmente importante è che questo precedente legale sia stato in
seguito utilizzato per negare la residenza a migliaia di gerosolimitani.
Nel
1995 la Corte Suprema ha emesso un altro verdetto cardine contro
Fathiyya Shiqaqi, la moglie di Fathi Shiqaqi, fondatore del movimento
della Jihad Islamica. Residente a Gerusalemme, Shiqaqi è stata obbligata
ad andarsene con suo marito, deportato in Siria nel 1988. Sei anni dopo
è tornata a Gerusalemme ed ha cercato di rinnovare la sua carta
d’identità e di registrare i suoi tre figli. Il ministero dell’Interno
ha rigettato la sua richiesta e le ha ordinato di lasciare il Paese. Da
allora Israele ha revocato la residenza in base ad un’ordinanza scritta
dal ministero se il residente era stato assente per sette anni di fila o
aveva ottenuto una residenza permanente all’estero o un’altra
cittadinanza. Benché il caso di Shiqaqi non rispecchiasse queste
condizioni, la Corte Suprema ha di nuovo approvato la revoca della sua
residenza, in quanto Shiqaqi viveva all’estero con suo marito e il
“centro della sua vita” non era più in Israele.
Dopo
questo secondo punto di svolta migliaia di palestinesi residenti che
vivevano fuori dai confini municipali di Gerusalemme in Cisgiordania, a
Gaza o all’estero hanno iniziato a perdere lo status di residenti.
Questo alto numero di vittime di espulsioni forzate non era
necessariamente coinvolto in una qualunque attività politica. La revoca
della residenza è dipesa esclusivamente dal criterio del “centro della
vita”.
Questi
due importanti casi sembra siano stati scelti a proposito. Nella
società ebreo-israeliana, molto pochi si identificherebbero nella
difficile condizione di un accademico che sostiene la disobbedienza
civile o della moglie di uno jihadista islamista. Tuttavia, una volta
stabiliti questi precedenti, tutta la popolazione palestinese di
Gerusalemme è diventata a rischio.
Il terzo punto di svolta: “ Tradimento della fedeltà”
L’ultimo
punto di svolta nella politica israeliana di revoca della residenza ha
le sue radici nella revoca da parte del ministero israeliano degli
Interni di tre membri eletti nel Congresso Legislativo Palestinese
(CLP), così come del ministro palestinese degli Affari di Gerusalemme,
nel 2006. Il ministero sosteneva che avevano violato il loro “impegno
minimo di lealtà verso lo Stato di Israele”, in seguito alla loro
elezione nel CLP e la loro appartenenza ad Hamas. Le organizzazioni dei
diritti umani israeliane e palestinesi si sono indignate per
l’introduzione della “fedeltà” come nuovo criterio legale di stato
civile e la questione è rimasta in sospeso presso la Corte Suprema fin
dal 2006. Se la Corte Suprema dovesse approvare questa misura, le
autorità israeliane avrebbero a disposizione un nuovo pretesto per
l’espulsione forzata, come ha affermato Hasan Jabarin, direttore
dell’organizzazione per i diritti umani “Adalah” di Haifa.
Tuttavia
il recente scoppio di violenza nei TPO ha fornito ad Israele
l’opportunità di agire senza dover aspettare il verdetto della Corte
Suprema. Già il 14 ottobre 2015 il “Gabinetto di Sicurezza” israeliano
ha emesso una decisione secondo cui “i diritti di residenza permanente
di terroristi saranno revocati,” senza dare una definizione di
terrorista. Una settimana dopo, il ministero dell’Interno ha notificato a
quattro palestinesi, sospettati di aver commesso azioni violente contro
cittadini israeliani (tre dei quali accusati di aver lanciato pietre),
che il ministero aveva preso in considerazione l’adozione del potere
discrezionale per revocare la loro residenza perché le azioni criminali
di cui erano accusati dimostravano una “chiara violazione della fedeltà”
verso lo Stato di Israele. Nel gennaio 2016 il ministero ha emesso una
decisione ufficiale di revoca della residenza contro i quattro
gerosolimitani.
Quindi
non è più sufficiente per i palestinesi di Gerusalemme vivere
effettivamente a Gerusalemme e conservare il “centro della propria vita”
in città. Dai gerosolimitani palestinesi ci si aspetta che rispettino
il nuovo criterio indefinito di “fedeltà”. L’organizzazione per i
diritti umani israeliana HaMoked, con sede a Gerusalemme, ha contestato
questa nuova politica presso la Corte Suprema israeliana. Tuttavia la
Corte non ha ancora preso una decisione sul caso. Allo stesso modo è
ancora pendente il caso dei quattro leader politici palestinesi la cui
residenza è stata revocata nel 2006.
Nessuno
sa ancora quanti permessi di residenza sono stati revocati in base al
relativamente nuovo criterio della “fedeltà”, ma almeno alcuni altri
casi sono in attesa di sentenza alla Corte Suprema. HaMoked ha
presentato una richiesta sulla base della legge sulla libertà
d’informazione per obbligare il ministero dell’Interno a rivelare questa
informazione.
Vale
la pena ricordare che le leggi umanitarie internazionali proibiscono la
pretesa di fedeltà di una popolazione sotto occupazione. Quindi,
giustificare una revoca della residenza in base alla “violazione della
fedeltà” è contrario alle leggi internazionali. Oltretutto non ci sono
giustificazioni per revocare la residenza di chiunque sia sospettato di
un atto di violenza perché il sistema penale israeliano punisce già ogni
atto di violenza – così come molti atti non violenti – commessi dai
palestinesi.
Da
una prospettiva legale e storica più ampia, Israele dovrebbe ricordare
che gli spostamenti forzati sono un crimine di guerra se messi in atto
in un territorio occupato e un crimine contro l’umanità se molto diffusi
o sistematici. Le ultime misure del governo israeliano unite a quelle
già esistenti potrebbero configurare il criterio dello spostamento
sistematico come equivalente a un crimine contro l’umanità.
Resistere alla politica di espulsione forzata
La
lotta contro la revoca della residenza a Gerusalemme ha per lo più
avuto luogo nelle corti di giustizia israeliane e finora è stata, in
generale, persa. I tentativi di parecchie organizzazioni dei diritti
umani palestinesi ed israeliane di sostenere presso la Corte Suprema
israeliana che i gerosolimitani non sono immigrati ma nativi che hanno
un diritto incondizionato di vivere nella loro città sono falliti. La
Corte Suprema israeliana ha sostenuto che il diritto dei gerosolimitani
palestinesi di vivere a Gerusalemme est dovrebbe continuare ad essere in
mano al potere discrezionale del ministero dell’Interno. L’attuale
governo di destra israeliano sta utilizzando questa discrezionalità per
promuovere rapidamente l’espulsione di più palestinesi possibile da
Gerusalemme.
Inoltre
non ci sono contromisure chiare a livello diplomatico ed internazionale
contro le azioni punitive di Israele. L’OLP ha ottenuto il
riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea Generale
dell’ONU e quindi ha aderito ad una serie di importanti convenzioni sui
diritti umani e sul diritto umanitario internazionale, compreso lo
Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (CPI). Tuttavia, non è
ancora chiaro quale uso lo Stato di Palestina intenda fare di questo
status e di queste convenzioni per resistere alle revoche della
residenza a Gerusalemme.
La
maggior parte dei ricorsi dopo che la Palestina ha aderito alla CPI
sono stati centrati sui crimini che hanno avuto luogo durante la guerra
contro Gaza, che ovviamente è importante. Tuttavia vorrei sostenere che
la questione delle espulsioni forzate non lo è di meno. A Gerusalemme ed
in altre parti della Cisgiordania le espulsioni forzate sono parte del
regime giuridico israeliano. Sono state implementate attraverso leggi
israeliane, ordinanze amministrative e decisioni dei tribunali. Nel caso
specifico di Gerusalemme, le istituzioni giuridiche e amministrative
israeliane non prendono nemmeno in considerazione gli argomenti delle
leggi internazionali perché Israele considera Gerusalemme israeliana e
non un territorio occupato.
Israele
deve ricevere il forte messaggio dalle istituzioni giuridiche
internazionali e dagli ambienti diplomatici che, nonostante la
definizione israeliana, la comunità internazionale considera Gerusalemme
occupata e il trasferimento dei suoi civili un reato penale.
Di
fronte a questa situazione, varie organizzazione palestinesi dei
diritti umani di Gerusalemme est e altrove in Cisgiordania (Al-Quds
University’s Community Action Center, St. Yves, Jerusalem Legal Aid and
Human Rights Center (JLAC), the Civic Coalition for Palestinian Rights
in Jerusalem, Badil, Al-Haq e Al-Quds Human Rights Clinic) hanno
lanciato recentemente una campagna per resistere alla nuova politica
israeliana di espulsioni contro i gerosolimitani. La campagna è iniziata
portando questo problema davanti al Consiglio per i Diritti Umani
dell’ONU per sollevarlo davanti alla diplomazia internazionale ed ai
professionisti dei diritti umani.
La
campagna si è concentrata sul porre termine alla revoca punitiva della
residenza perché non è ancora stata approvata dalla Corte Suprema
israeliana, rendendo questo provvedimento più facile da impugnare. Se,
tuttavia, la Corte decidesse che questa politica è legittima, essa verrà
inserita nel sistema giuridico israeliano e molto probabilmente
espellerà molti altri palestinesi da Gerusalemme.
Istituzioni
pubbliche palestinesi, così come organizzazioni della società civile,
dovrebbero lavorare duramente contro le politiche sistematiche di
Israele di espulsioni forzate. Mentre i palestinesi in generale hanno la
sensazione che le leggi internazionali non siano state molto utili alla
causa palestinese, questa non dovrebbe essere portata come scusa per
abbandonare la battaglia legale. Questa lotta non dovrebbe riguardare
solo le istituzioni legali di Israele e le loro politiche
discriminatorie, ma dovrebbe anche essere intrapresa a livello
internazionale. La stessa Corte Suprema israeliana potrebbe
riconsiderare il suo sostegno alle politiche discriminatorie se avesse
la sensazione di essere sotto esame.
Rimane
da vedere se la pressione della campagna locale palestinese ribalterà
la politica di revoca punitiva della residenza. Ciò che è certo,
comunque, è che i diritti dei palestinesi a Gerusalemme meritano molta
maggiore attenzione e che il problema della revoca della residenza a
Gerusalemme deve essere all’ordine del giorno. Avvocati palestinesi,
organizzazioni dei diritti umani e istituzioni devono approfittare
dell’occasione offerta dall’adesione della Palestina ad una serie di
trattati sui diritti umani per incrementare la loro pressione sulla
comunità internazionale. E’ ora che la comunità internazionale rispetti i
propri obblighi di prendere tutte le misure a disposizione per porre
fine al crimine delle espulsioni forzate, obblighi i responsabili a
rendere conto di tali politiche e inverta i loro effetti indennizzando
le vittime, compreso il loro diritto di tornare nelle proprie case.
Centrare le campagne sui diritti legati ad un singolo problema può
essere più efficace da un punto di vista legale che impostare campagne
complessive che intendano mettere in evidenza molteplici ingiustizie.
Le
opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale dell’agenzia di notizie Ma’an.
*Al-Shabaka
è un’organizzazione no-profit indipendente il cui scopo è educare e
promuovere il dibattito pubblico sui diritti umani e
l’autodeterminazione dei palestinesi nel quadro delle leggi
internazionali.
Questo
articolo di fondo è stato scritto dal redattore politico di al-Shabaka
Munir Nuseibah, avvocato dei diritti umani e docente dell’università
Al-Quds di Gerusalemme. E’ professore presso la facoltà di legge della
Al Quds, direttore e cofondatore della Al-Quds Human Rights Clinic e direttore del Centro per l’Azione Comunitaria di Gerusalemme.
(traduzione di Amedeo Rossi)
Posted
on 28 aprile 2016 by Admin2 28 Aprile 2016 | International Solidarity
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