La logica dell’assassinio in Israele: una cultura di impunità in piena vista del mondo intero





Ramzy Baroud
14 aprile 2016
“Se abbia fatto un errore oppure no, è una questione da poco,”  ha detto un soldato israeliano ebreo che si era unito a grandi proteste in tutta Israele a sostegno di un soldato che con calma e con precisione aveva ucciso un palestinese ferito ad al-Khalil (Hebron). L’ebreo che dimostrava definiva i palestinesi: ‘barbari’, ‘bestiali’, che non dovrebbero essere percepiti come persone.
Questo non è certo un punto di vista marginale in Israele. La vasta maggioranza degli israeliani, il 68%, appoggia l’uccisione di Abdel Fatah Yusri al-Sharif, di 21 anni, per mano del soldato che si dice abbia annunciato, prima di sparare al palestinese ferito, che il “terrorista doveva morire.”
La scena dell’uccisione sarebbe stata relegata negli annali dei molti omicidi ‘contestati’, compiuti da soldati israeliani, se non fosse stato per un  palestinese che opera nel gruppo israeliano per i diritti umani, B’Tselem, e che ha filmato il sanguinoso evento.
L’incidente, ancora una volta, mette in luce una cultura di impunità che esiste nell’esercito israeliano, il che non è un fenomeno nuovo.
Non soltanto la società israeliana appoggia il soldato  che è dietro  questo particolare evento sanguinoso, quasi una vasta maggioranza sostiene anche le esecuzioni
Di fatto, la cultura dell’impunità in Israele è legata sia alle tendenze politiche  che alle convinzioni religiose. Secondo il più recente Peace Index, pubblicato dall’Istituto dell’Università di Tel Aviv per la Democrazia in Israele, quasi il 67% della popolazione ebrea del paese, crede che sia un comandamento uccidere un terrorista che viene verso di te con un coltello”.
Uccidere un palestinese come  forma di dovere religioso, risale ai primi giorni dello stato ebraico, e queste convinzioni sono costantemente corroborate dalle alte istituzioni religiose del paese, simili al recente decreto emanato dal  Rabbino Sefar   Yitzhak Yosef. Mentre il 94% degli ultra-Ortodossi sono d’accordo con  il decreto di Yosef sull’assassinio, anche il 52% dei laici del paese lo accettano.
Infatti, disumanizzare i palestinesi, definendoli ‘bestie’, ‘scarafaggi’ o trattarli come esseri inferiori superflui – è stato storicamente un denominatore comune nella società israeliana che unisce gli ebrei di vari contesti politici, ideologici e religiosi.
Il decreto del Rabbino Yosef, per esempio, non è molto diverso dalle dichiarazioni fatte del Ministro della difesa israeliano, Moshe Ya’alon, e da altri ufficiali dell’esercito e da funzionari governativi, che hanno fatto inviti analoghi, anche se non hanno usato un discorso formulato con termini fortemente religiosi.
Usando la stessa logica, la citazione che descrive i palestinesi come bestie, non diverge da una dichiarazione fatta di recente dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. “Alla fine, nello Stato di Israele,  ci sarà una recinzione che li  conterrà   tutti,” ha detto Netanyahu in febbraio. “Nella zona in cui viviamo, dobbiamo difenderci dalle bestie feroci,” ha aggiunto.
Mentre i sapientoni favorevoli a Israele si sforzano di spiegare la percezione   diffusa
che  hanno gli israeliani riguardo ai palestinesi, e agli arabi in generale, sul terreno razionale, la logica e il buon senso continuano a sfuggirli. Per esempio, la più recente guerra di Netanyahu contro Gaza nell’estate del 2014, uccise un totale di 2.251 palestinesi – compresi 1.462 civili, tra i quali 551 bambini, secondo un rapporto preparato dal Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (UNHRC).  Durante quella guerra, furono uccisi soltanto 6 civili israeliani e 60 soldati.
Chi è allora, veramente, l’animale selvaggio?
I palestinesi, tuttavia,  non vengono trasformati in bestie a causa del loro intento presumibilmente omicida dato che non una volta, statisticamente, nella storia del conflitto israelo-palestinese, i palestinesi hanno ucciso un numero maggiore di israeliani, al contrario di ciò che accade nel caso opposto. Il guaio non è il numero, ma la comune percezione culturale israeliana che è totalmente  razzista e disumana.
Né la percezione di Israele dei palestinesi è stata mai legata a uno specifico periodo di tempo, come, per esempio, una rivolta popolare o una guerra. Considerate questa testimonianza oculare dell’agosto 2012, citata, da Haaretz, anni prima dell’attuale rivolta in Cisgiordania e a Gerusalemme:
“Oggi ho visto un linciaggio con i miei occhi, a Zion Square, il centro della città di Gersualemme… ed espressioni come  ‘Un ebreo è un’anima e un arabo è figlio di…., venivano urlate e molti giovani correvano e si radunavano e iniziarono davvero a percuotere a morte tre giovani arabi che camminavano tranquillamente in via Ben Yehuda,” ha scritto il testimone.
“Quando uno dei giovani palestinesi cadde per terra, i giovani continuarono a colpirlo sulla testa; perse coscienza, i suoi occhi si rivoltarono nelle orbite, la testa piegata si contrasse,   e poi coloro che lo stavano prendendo a calci scapparono mentre gli altri si radunarono intorno a lui in circolo, e alcuni di loro gridavano ancora con l’odio negli occhi.”
Immaginate questo resoconto realistico ripetuto, ogni giorno, in diverse forme, nella Palestina occupata, e considerate questo: raramente qualcuno paga il prezzo. In realtà,  questo è il modo in cui si è sviluppata la cultura dell’impunità di Israele nel corso degli anni.
Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani,  Yesh Din, “circa il 94% delle indagini penali iniziate dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) contro soldati sospettati di attività criminali violente contro i palestinesi e le loro proprietà vengono chiuse senza alcun rinvio a giudizio. Nei rari casi che il rinvio viene attuato, la sentenza porta a condanne molto lievi.
E nessuno è immune. La rivista israeliana 972Mag, nel dicembre 2015 ha scritto circa le centinaia di incidenti violenti delle forze israeliane che prendono di mira il personale medico palestinese. Il gruppo palestinese per i diritti umani, Al-Haq, ha documentato 56 casi in cui “erano state attaccate delle ambulanze”, e 116 assalti contro il personale medico mentre era in servizio.
Che dire della violenza inflitta dai coloni illegali la cui popolazione nei Territori Occupati è costantemente in aumento?
I coloni armati si scatenano quotidianamente tra i villaggi della Cisgiordania Occupata e nei quartieri di Gerusalemme Est. Il numero di reati violenti da loro compiuti, è cresciuto molto in negli anni recenti ed è perfino raddoppiato fin dal 2009.
Nell’agosto del 2015, mesi prima dall’attuale insurrezione, il ricercatore dell’Osservatorio per i Diritti Umani, Bill Van Esveld, ha scritto:
“I coloni attaccano i palestinesi e  le loro proprietà quasi quotidianamente – l’anno scorso ci sono stati più di 300 di tali attacchi, ma pochi dei colpevoli sono stati processati. Nello scorso decennio, meno del 2% delle indagini sugli attacchi dei coloni si sono concluse con delle condanne.
Nel caso qualcuno si faccia ancora   ingannare dall’argomento ‘razionale’ usato per giustificare l’uccisione di palestinesi che subiscono un’occupazione militare, che sono oppressi e assediati, Batzalelk Smotrich del Partito Casa  Ebraica che fa parte della coalizione  di  governo di Netanyahu, ha protestato su Twitter perché si prevedeva che sua moglie avrebbe partorito nella stessa stanza dell’ospedale dove nascono i bambini arabi.
Il suo ‘fondamento logico’ scritto, dopo aver dichiarato che sua moglie “non è razzista”, è: “E ’naturale che mia moglie non vorrebbe stare a letto di fianco a una donna il cui neonato potrebbe presto volere uccidere mio figlio.”
Le persone simili a Smotrich, e la maggioranza degli israeliani sono moralmente ciechi di fronte ai loro reati. Si sono da tempo venduti all’idea che Israele, malgrado la sua brutalità, è una ‘villa nella giungla’ [frase dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak, n.d.t.). Secondo una recente indagine del Centro di ricerca Pew, quasi metà degli Israeliani vuole espellere gli arabi palestinesi – sia musulmani che cristiani- dalla loro terra ancestrale.
Il rischio dell’impunità non è soltanto la mancanza di responsabilità legale, ma il fatto che è proprio il fondamento dei crimini più violenti contro l’umanità, compreso il genocidio.
Questa impunità è iniziata sette decenni fa e non finirà senza l’intervento internazionale, con sforzi coordinati per considerare responsabile Israele,  allo scopo  di mettere fine all’agonia dei palestinesi.
Il Dottor  Ramzy Baroud scrive da 20 anni di Medio Oriente. E’ un opinionista che scrive sulla stampa internazionale, consulente nel campo dei mezzi di informazione, autore di vari libri collaboratore e fondatore del sito PalestineChronicle.com. Tra i suoi libri ci sono: ‘Searching Jenin’ [Cercando Jenin], The Second Palestinian Intifada [La seconda Intifada palestinese],  e il suo  più recente: My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story [Mio padre era un combattente per la libertà: la storia di Gaza che non è stata raccontata]. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-logic-of-murder-in-israel-a-culture-of-impunity-in-full-view-of-the-entire-world/
Originale: non indicato
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0

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