di Albana Dwonch
Albana Dwonch è una candidata al dottorato di ricerca presso l’Università di Washington, attualmente ricercatrice a Gerusalemme.
Sei
mesi dopo il suo inizio, sono state poste più domande che fornite
risposte relativamente alla violenta rivolta dei giovani nei territori
palestinesi occupati.
“E’o
non è una terza intifada?” è stata la questione più dibattuta da molti
media ed analisi. La seconda, “I social media vi hanno contribuito?”, ha
provocato un analogo disorientamento sul loro ruolo nell’ultima rivolta
dei giovani.
La
confusione è stata soprattutto evidente nella difficoltà dei media nel
definire questi nuovi soggetti senza leadership e le loro inconsuete
modalità di mobilitazione. I giornalisti hanno dovuto modificare la
propria terminologia e creare nuove espressioni, come “lupo solitario” e
“ istigatore informatico”.
Anche
questi termini erano comunque problematici. “Lupi solitari” – gli
utilizzatori degli strumenti più arcaici della strada – erano difficili
da distinguersi dagli “istigatori informatici” – utilizzatori delle
tecnologie dei social, che producevano, postavano e diffondevano video
di eventi attraverso le loro reti.
Nonostante
la difficoltà di definire e spiegare questi nuovi soggetti ed i loro
metodi organizzativi decentrati, la conclusione finale è che i social
media sono stati un vettore per la diffusione della violenza e per la
radicalizzazione della gioventù palestinese negli ultimi sei mesi.
Comunque
questa conclusione non tiene conto di uno sviluppo più profondo e
persistente. Al di là del ruolo specifico dei social media in questa
rivolta giovanile, le più vaste implicazioni del drastico cambiamento
dell’ambito sociale e mediatico stanno incominciando a modificare i
sistemi politici palestinese ed israeliano e le loro basi di potere
interne ed internazionali.
L’uso
dei social media ha evidenziato che, mentre l’ANP (Autorità Nazionale
Palestinese, ndt.) ed Israele possono ancora essere in grado di
contenere i disordini, di certo l’ANP non può controllare il
coinvolgimento dei giovani in essi, né può Israele fermarlo
definitivamente.
Perché sono arrabbiati ma senza guida?
Il
grado di influenza dei social media sulla dinamica delle violenze in
questa rivolta dei giovani è strettamente correlato alla più vasta
implicazione del palesamento della crisi di legittimità delle strutture
politiche palestinesi.
La
scelta dei giovani di non avere leadership e di mobilitarsi in modo
decentrato rivela un profondo distacco e perdita di fiducia nei loro
partiti e leaders.
L’accusa
che la diffusione virale di video violenti attraverso i social media ha
amplificato la rabbia ed incitato ad ulteriore violenza è stata ora
superata da un altro involontario effetto mediatico di quest’ultimo
ciclo di violenza.
Il
video del 24 marzo prodotto da un attivista dei diritti dei cittadini
ad Hebron ha rivelato il sottile confine tra “istigare” e “mostrare” la
violenza.
L’immagine
di un soldato israeliano che uccide un palestinese già ferito steso a
terra ha rivelato al vasto pubblico il lato meno conosciuto della stessa
brutta storia: l’eccessivo uso da parte di Israele della violenza di
stato nei territori palestinesi occupati.
Analogamente
al sottile confine tra “lupo solitario” e “istigatore informatico”, i
video che mostrano “gli attacchi palestinesi col coltello” vengono ora
affiancati ai video che mostrano le esecuzioni extragiudiziali
israeliane.
L’esposizione
della violenza di stato come involontario effetto di attrazione di
“lupi solitari” ha portato ad un altro problema: la maggiore
sorveglianza e censura per individuare gli “istigatori informatici”.
Israele,
con la sua potente infrastruttura informatica e tassi di diffusione di
internet tra i più alti al mondo, da ottobre 2015 ha aumentato il
controllo su internet ed ha arrestato centinaia di giovani palestinesi
per “istigazione online” sulle loro pagine Facebook.
Inoltre
il governo israeliano ha chiuso organi di stampa palestinesi in
Cisgiordania e determinate Ong israeliane che pubblicizzano video e
materiali per la difesa dei diritti umani dei palestinesi sono
attualmente sotto indagine dello stato, che le considera sospette di
essere agenti stranieri.
Gli apparati di potere reagiscono
La
cooptazione di soggetti non statali, un’accresciuta sorveglianza e
l’uso eccessivo della forza militare sono la consueta risposta dello
stato a queste proteste dei giovani.
Di
fatto, con la sua reazione a questi disordini, il governo israeliano
agisce in modo perfettamente simile a quello con cui l’Autorità
Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza hanno represso e poi
schiacciato il movimento giovanile non violento del 15 marzo 2011.
Ispirato
alle immagini indimenticabili della primavera araba, il movimento del
15 marzo era iniziato su Facebook sottoforma di un infiammato manifesto,
che ha innescato una risposta emotiva in una vasta area di giovani che
condividevano le stesse frustrazioni ed hanno occupato le piazze in
Cisgiordania e a Gaza.
Queste
proteste si rivolgevano contro la divisione tra le fazioni palestinesi
ed altre strutture di potere. Poco dopo, le autorità palestinesi hanno
significativamente aumentato il controllo su internet, hanno chiuso o
cooptato le Ong locali, hanno sciolto i gruppi giovanili online ed hanno
incarcerato e minacciato i giovani leaders carismatici.
Quindi,
mentre la caccia da parte di Israele ai lupi solitari e agli istigatori
informatici è lungi dall’essere finita, si sta sviluppando qualcosa di
molto più importante: se da un lato la risposta dello stato alle
proteste dei giovani sta diventando relativamente facile da prevedere,
dall’altro lato la prossima ondata di protesta giovanile e ciò che
comporterà è estremamente imprevedibile.
Abbiamo
assistito almeno due volte in questo decennio a proteste diffuse
attraverso i social media che hanno cercato di colpire le strutture di
potere palestinesi ed israeliane. Entrambe sono state accese da un
sentimento di rabbia largamente condiviso ed entrambe hanno sorpreso il
sistema al potere. Entrambe sono state momentaneamente arginate.
Però,
individuando i social media come la causa del fallimento di questo tipo
di mobilitazioni o del loro divenire violente, si svia l’attenzione dal
comprendere l’evolversi delle condizioni che permettono la
trasformazione del sentimento emotivo di speranza o disperazione nel
prossimo movimento per il cambiamento contro i poteri in carica.
Questa comprensione potrebbe drasticamente modificare i rapporti di potere nel conflitto israelo-palestinese.
Le
opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono
necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.
( Traduzione di Cristiana Cavagna)
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