Stefano Sarfati Nahmad : La fatica di essere ebreo e difendere il popolo palestinese


 
 
 
 
 
Avrei voluto celebrare la capacità d’integrazione e convivenza di due culture in uno Stato che sia da esempio in tutto il Medio Oriente, mi sarebbe piaciuto andare a…
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Avrei voluto celebrare la capacità d’integrazione e convivenza di due culture in uno Stato che sia da esempio in tutto il Medio Oriente, mi sarebbe piaciuto andare a Gerusalemme, dalla Porta di Jaffo prendere un bus per Ramallah, girare per mercatini e poi, seduto al tavolino di un bar, sorseggiando un caffè al cardamomo, scrivere e raccontare di un mondo di villaggi palestinesi e kibbutz che contribuiscono allo sviluppo di una cultura e un’economia che sommi la memoria e l’esperienza del passato con il dinamismo e la voglia di futuro; avrei voluto poter andare con piacere a trovare i miei parenti a Tel Aviv, (i miei nonni scelsero l’Europa, i loro scelsero la Palestina), farmi stupire dalle gallerie d’arte, dai grattacieli, dalle strade pedonali piene di bei negozi espressione dell’incontro di diverse culture quella di origine europea e quella palestinese, così come Berlino agli inzi del ‘900 lo era per l’incontro della cultura ebraica e quella tedesca.
Purtroppo dalla Guerra dei sei giorni del 1967, le cose sono andate diversamente: Israele stravinse e l’euforia si impadronì degli israeliani sentendosi «a casa» a Gerusalemme e nel resto dei territori palestinesi che da allora furono, e tuttora sono, Territori Occupati. Tra poco saranno 50 anni di occupazione (l’Italia è stata occupata dai tedeschi un anno e mezzo e ancora oggi se si disputa la partita di calcio Italia Germania sembra di sentirne l’eco), in questi decenni i palestinesi hanno provato a ribellarsi ma la schiacciante superiorità militare israeliana li ha sempre soffocati con la forza delle armi. Eppure, una delle armi più potenti che ha consentito lo Stato di Israele di portare avanti questa politica, non è militare bensì di natura simbolica: essendo nato all’indomani della Shoah, è sempre stato identificato come uno stato «vittima». Inoltre l’antipatia del mondo occidentale verso il mondo arabo, lo ha identificato come un popolo aggressivo a cui è stato associato il termine «terrorista» in particolare dopo l’undici settembre 2001. La storia del conflitto israelo-palestinese è pieno di questi slittamenti semantici che hanno celato la verità dei fatti sul terreno. Quando noi Ebrei Contro l’Occupazione nel 2001 abbiamo iniziato a prendere posizione a favore dei palestinesi, abbiamo trovato forti resistenze alla nostra «narrazione» non solo nel mondo ebraico italiano, ma anche nella politica italiana, compresa una buona parte della sinistra (il Manifesto è stato uno dei pochissimi giornali ad averci dato spazio), e il motivo è proprio che essa narrazione non si adattava all’immagine del conflitto nel senso comune.
La mia sensazione è che oggi qualcosa sia cambiato. Sarà che ormai l’immagine di Israele vittima è troppo logorata dalle foto e dai video di morte e distruzione che quotidianamente stanno arrivando, ma l’aria che tira secondo me è diversa. Mi ha molto colpito una lettera di un lettore del quotidiano Metro del 21 luglio dal titolo: «Fratelli ebrei cosa vi succede?» che a un certo punto, rivolgendosi appunto agli ebrei, scrive: «I vostri cuori sono tanto induriti da non avvertire le carni dei martiri bruciare, non sentire il singhiozzo spaventato dei bambini, non vedere il terrore di un popolo ridotto alla fame e alla fuga su carretti trainati da somari abbandonando alle spalle quattro stracci di ricordi e brani di corpi spezzati dalle bombe a grappolo?». Questa lettera mi ha fatto sentire intrappolato: caro Claudio, a chi ti stai rivolgendo? A me che mi sono apertamente schierato e insieme ai miei compagni sono sfilato in una manifestazione con tanto di striscione «Ebrei contro l’occupazione» a fianco dei palestinesi? Ti stai rivolgendo a quegli ebrei che in Italia e nel mondo hanno sempre e incondizionatamente preso le difese di Israele? Parli agli israeliani, o escludi quelli che hanno fatto obiezione di coscienza? Apprezzo che parli col cuore in mano e senza paura ma per favore non cadere anche tu nella trappola dell’identità che mette tutta l’erba in un solo fascio.
Sì, il mio cuore è sicuramente indurito, faccio fatica a frequentare amici ebrei per non dover toccare «l’argomento», non vado in Israele, e ora toccherà anche difenderli da un sentimento crescente di odio che personaggi in cerca di argomenti vanno fomentando.
GIULIO_REGENI

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