Fulvio Scaglione (vice direttore di Famiglia Cristiana): “Mobilitiamoci contro la guerra in Libia e per una nuova informazione in Italia”

 


“La politica prevede per natura una certa dose di ipocrisia, ma qui siamo oltre. Siamo al solito ritornello per cui i Paesi occidentali, quando proprio va male, compiono…
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“La politica prevede per natura una certa dose di ipocrisia, ma qui siamo oltre. Siamo al solito ritornello per cui i Paesi occidentali, quando proprio va male, compiono “errori”. Il che implica una derubricazione inaccettabile: bombardi un Paese, lo fai a pezzi com’è successo in Libia, ed è un “errore”? T’inventi una guerra e scateni un massacro di civili come in Iraq e poi chiedi scusa? Se questo non è spirito coloniale, che cos’è?”

di Alessandro Bianchi Intervista a l’Antidiplomatico di Fulvio Scaglione, vice-direttore di Famiglia Cristiana

Dopo le scuse di Blair sull’Iraq, arrivano anche quelle di Obama sull’intervento in Libia nel 2011. In un intervista a The Atlantic, il presidente degli Stati Uniti ha dato la colpa agli “scrocconi” di Francia e Regno Unito del disastro creato e ammesso che “è stato un errore sostenere la NATO in Libia”. Non sono parole ipocrite per chi era al comando della catena di decisioni che portarono a quei bombardamenti e per chi come Segretario di Stato aveva una persona che in Tv rideva con il celebre “Veni, vidi, vici”?

“La politica prevede per natura una certa dose di ipocrisia, ma qui siamo oltre. Siamo al solito ritornello per cui i Paesi occidentali, quando proprio va male, compiono “errori”. Il che implica una derubricazione inaccettabile: bombardi un Paese, lo fai a pezzi com’è successo in Libia, ed è un “errore”?  T’inventi una guerra e scateni un massacro di civili come in Iraq e poi chiedi scusa? Se questo non è spirito coloniale, che cos’è? E dietro c’è anche tutta la distorsione del cosiddetto “diritto d’ingerenza umanitaria”, ormai usato per quelle che una volta erano le guerre imperialiste. Basta decidere che in Kosovo o, appunto, in Libia, c’è un’emergenza umanitaria e, per dire, nello Yemen no, per indirizzare la politica internazionale in un senso piuttosto che in un altro”.

In Italia assistiamo in queste settimane al teatrino mediatico sulla Libia. Dall’esterno veniamo a conoscenza dei droni armati a Sigonella, del nostro comando per un’operazione militare in Libia ormai prossimo e persino del numero delle truppe da impiegare. Dall’interno, il governo Renzi tra conferme e smentite di facciata sembra tergiversare e prendere tempo. A chi dobbiamo credere?

“Credo che anche chi ha in antipatia il premier Renzi e il suo Governo debba riconoscere che, in merito alla Libia, ha assunto la posizione più civile, o la meno incivile. Governo di unità nazionale in Libia e intervento sotto l’egida dell’Onu, questo è ciò che l’Italia ragionevolmente chiede. È ovvio, però, che l’attuale situazione, erede del folle intervento del 2011, prevede solo svantaggi. Come lo stesso ministro Gentiloni ha ricordato, la Libia è grande cinque volte l’Italia e oggi ospita più di 200 mila uomini armati. Qualunque intervento militare si abbia in mente si prospetta lungo, difficile, costoso e sanguinoso. Per l’Italia c’è un problema in più, lo stesso del 2011: che cosa facciamo se, a dispetto delle nostre cautele, gli altri partono ugualmente? Se Gran Bretagna e Francia intervengono un’altra volta? Se il prossimo presidente americano si lancia? Lasciamo che questi pasticcioni facciano altri disastri sulla soglia di casa nostra? Interveniamo anche noi e ci esponiamo a ritorsioni terroristiche? Il vero dilemma è questo”.

Che conseguenze avrebbe un nostro intervento in Libia? Sarebbe un fattore di stabilizzazione intorno al riferimento della comunità internazionale, il Parlamento di Tobruk, o di ulteriore destabilizzazione nel paese?

“Di nuovo, bisogna distinguere tra un intervento “nostro”, italiano, e un intervento di coalizione. Ho seguito i nostri contingenti in diversi teatri di guerra come Afghanistan, Iraq, Kosovo e li ho sempre visti all’altezza, bravissimi nei rapporti con le popolazioni locali. In più, per ragioni poco nobili (le avventure coloniali) ma anche molto nobili (la nostra ambasciata è stata l’ultima a chiudere, in Libia), siamo quelli che meglio conoscono la Libia. Ma da soli ovviamente non possiamo farcela. Con chi saremo? Quale ruolo avremo? Chi detterà la strategia? Che cosa farà chi sarà con noi? Il verov problema è qui”.

L’intervento in Libia non rischia, secondo Lei, di allargare la minaccia jihadista alla Tunisia e poi a tutto il Magreb? E che faremo poi, dovremmo intervenire militarmente anche in quella regione?

“La minaccia jihadista è già nel Maghreb, sia in Tunisia come i frequenti attentati dimostrano, sia nel Sinai egiziano. È ovvio che una spedizione militare può servire, eventualmente, solo per stroncare un focolaio. Come in Siria: se vuoi eliminare l’Isis, devi combatterlo. In Libia, si potrebbe forse anche contare sul momentaneo appoggio di quella parte di fazioni e tribù che vivono i jihadisti come degli intrusi e concorrenti. Ma per risolvere il problema alla radice servirà ben altro, prima fra tutte una politica di sviluppo economico. Dall’Afghanistan all’Iraq nin mi pare che ce la siamo cavata molto bene con il nation building”.

Tornando all’ipocrisia occidentale. Chomsky ha definito l’Isis come una “società offshore dell’Arabia Saudita”; i legami della Turchia con i terroristi in Siria sono ormai palesi. I governi occidentali a parole si dichiarano pronti a combattere con tutte le loro energie la “minaccia terrorista”, ma poi Hollande conferisce la Legion d’Onore al principe ereditario dell’Arabia Saudita, l’Ue è ai piedi di Erdogan e Gentiloni nel marzo del 2015 crea un Gruppo di contrasto al finanziamento dell’Isis co-presieduto da Riad, che chiaramente non ha prodotto alcun risultato. Se non fosse drammaticamente tragico, ci sarebbe quasi da sorridere?

“È la storia del Novecento: abbiamo preteso di combattere il terrorismo senza preoccuparci di intervenire sulla sua ispirazione ideologica (il wahabismo) e sulle sue fonti di finanziamento, che sono concentrate nei Paesi del Golfo Persico. Non a caso il terrorismo islamico è sempre cresciuto, e gli attentati e le vittime anche. È stato più comodo inventarsi panzane ideologiche come lo scontro di civiltà che fare qualcosa di politicamente impegnativo”.

Lei ha criticato l’accordo salva Schengen tra UE e Turchia. L’Unione Europea ha definitivamente venduto la sua anima al diavolo (Erdogan)?

“L’Unione Europea propriamente detta è finita. È rimasta una struttura finanziaria che si occupa di inflazione e tassi d’interesse”.

L’unica cosa che all’occidente riesce bene in questo periodo è demonizzare Mosca e la sua operazione anti-Isis. La Russia, l’unico paese a cui il Governo di Damasco ha chiesto un aiuto militare, è attualmente un fattore di stabilità o instabilità per la regione?

“Sicuramente di stabilità, ammesso che si possa usare questo termine in Medio Oriente. E penso non solo alla Siria dove, se non fosse intervenuta, oggi avremmo il dominio dell’Isis. Penso anche alla mediazione tra Occidente e Iran per l’accordo sul nucleare”.

– Domani (sabato 12 marzo), nel silenzio assoluto dei media, in diverse città italiane e davanti le basi militari della Nato e degli Usa dai territori in tanti scenderanno per protestare contro le guerre occidentali e contro il possibile intervento in Libia. E’ il momento di mobilitarsi?

“La mobilitazione va sempre bene, perché come minimo crea momenti di aggregazione tra le persone intorno a un’idea o a un ideale. E i temi della Nato, delle complicità con l’Isis e della guerra in Libia sono importantissimi. Però l’espressione “silenzio dei media” ci dice qual è, all’interno delle nostre società, un fronte permanente: quello dell’informazione. Il mondo sta cambiando, il modo di informare la gente no. Mobilitiamoci anche lì”.

Notizia del:

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=5496&pg=14760

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