ANALISI. Il mito delle partizioni che salveranno il Medio Oriente

ANALISI. Il mito delle partizioni che salveranno il Medio Oriente

 

Dobbiamo abbandonare la narrativa secondo la quale i conflitti civili sono guidati da antichi odi primordiali e affrontare le vere cause dei conflitti duraturi. Non c’è nulla di intrinseco nella diversità etnica che porti alla violenza, ma quasi ogni divisione sociale può essere sfruttata per motivarla
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di Adam R. Alexander – The National Interest





Roma, 23 marzo 2016, Nena News - Il giorno dopo la partenza dell’ultimo soldato americano dall’Iraq, il primo ministro Nouri al-Maliki ha ordinato l’arresto del vicepresidente Tariq al-Hashimi, il più importante sunnita nel governo iracheno. Il suo arresto è stato il primo di molti a venire per i sunniti iracheni. Nei mesi a seguire, i sunniti sono stati sistematicamente rimossi dalle posizioni di potere. Quando sono scesi in piazza per protestare contro i licenziamenti, sono stati brutalmente repressi. Gli Stati Uniti se ne erano andati da un giorno solo, ma l’Iraq stava già scivolando di nuovo in una guerra settaria che migliaia di soldati statunitensi avevano dato la vita per fermare.
Possono gli odi profondi che dividono l’Iraq, la Siria e molti altri paesi in via di sviluppo essere mai superati? È vero che queste persone non sono mai veramente andate d’accordo l’una con l’altra, che sono state costrette insieme in confini artificiali disegnati da potenze coloniali mal informate? Non starebbero tutti meglio se si separassero formando i loro propri paesi, più omogenei e quindi più tranquilli? Molti attuali ed ex politici sembrano pensarla così. L’anno scorso, l’ex Capo di Stato Maggiore Ray Odierno ha detto alla stampa che una partizione dell’Iraq secondo linee etniche “potrebbe essere l’unica soluzione” e che in futuro “l’Iraq potrebbe non apparire come in passato.” Nel mese di febbraio, il Segretario di Stato John Kerry ha suggerito che una partizione della Siria è un possibile ‘piano B’ se il cessate il fuoco non dovesse riuscire. James Stavridis ha di recente sostenuto la sua idea, affermando che “la Siria come nazione è sempre più una finzione.–Come Humpty Dumpty in una nota filastrocca per bambini, le probabilità di mettere la Siria di nuovo insieme in un’entità funzionante appaiono molto basse. E’ tempo di prendere in considerazione una partizione”.
E’ facile vedere il fascino delle partizioni proposte: se i bambini non riescono a giocare insieme, ci limiteremo a inviare ognuno nella propria stanza. Ma a un esame più attento è chiaro che le partizioni tendono a creare un numero di nuovi conflitti pari almeno a quelli risolti e che gli “antichi odi”, così spesso citati come precondizione degli stati separati, svaniscono a un esame più attento.
Ridisegnare i confini per porre fine ai conflitti etnici è raramente una strategia di successo. In un recente lavoro, Nicholas Sambanis e Jonah Schulhofer-Wohl mostrano che le guerre civili risolte attraverso la partizione è altrettanto probabile che si ripresentino in paesi suddivisi quanto in quelli lasciati interi. Anche quando le partizioni risolvono con successo una particolare fonte di conflitto, inevitabilmente ne creano molte altre. Le partizioni lasciano quasi sempre membri residui dell’etnia rivale entro i confini del nuovo Stato. Questo porta a pulizia etnica e ulteriori violenze. Solo un anno dopo essersi separata dalla Jugoslavia, la Croazia era in guerra con la sua rimanente popolazione serba che lottava per entrare a far parte della Serbia. In Iraq, un Kurdistan indipendente difficilmente sarebbe disposto a cedere il controllo del petrolio della ricca – ma a maggioranza araba – Kirkuk. Si può facilmente immaginare lo zampillo di una rivolta araba a Kirkuk come l’insurrezione serba in Croazia.
La partizione può anche attivare identità dormienti che diventano una nuova fonte di conflitto, mettendo gruppi che erano precedentemente alleati l’un contro l’altro per il controllo del nuovo stato. Dopo che il cristiano Sud Sudan si è diviso dal nord musulmano nel 2011, si è rapidamente trovato schiacciato nella violenza tra il Movimento democratico del Sud Sudan e il Movimento di Liberazione del Sudan del Sud. In Iraq, una regione sciita autonoma si ritroverebbe rapidamente lacerata tra le forze statali fedeli al partito Dawa del primo ministro Abadi e le milizie sadriste come il Jaysh al-Mahdi. In Siria, è difficile immaginare che le bande disparate dell’Esercito libero siriano – per non parlare Jabhat al-Nusra – possano formare un governo in una regione autonoma del nord della Siria senza incappare in un’altra guerra civile. In breve, ciò che possiamo aspettarci dai piani di partizione è un periodo di tumultuoso e probabilmente violento smistamento delle comunità che si sono sradicate (o che sono state sradicate) per unirsi ai loro co-etnici. Dopo l’omogeneizzazione dei loro nuovi stati, i leader etnici si metterebbero l’uno contro l’altro per il controllo dei loro nuovi domini.
Quindi, se non si divide cosa rimane?
Dobbiamo abbandonare la narrativa secondo la quale i conflitti civili sono guidati da antichi odi primordiali e affrontare le vere cause dei conflitti duraturi. Non c’è nulla di intrinseco nella diversità etnica che porti alla violenza. In un documento di riferimento del 2003, James Fearon e David Laitin dimostrano come il grado di diversità etnica in uno stato non abbia alcuna relazione con il fatto che si sia sperimentata o meno una guerra civile. Un altro loro documento illustra come ci sia un maggior rischio di guerra civile quando i gruppi particolari vengono deliberatamente esclusi dal governo. La maggior parte dei paesi contiene una gamma diversificata di popoli che vivono all’interno dei loro confini, ma solo una parte relativamente piccola sprofonda nella violenza. Le cause delle guerre civili non sono da ricercare nella diversità etnica, ma piuttosto negli stati deboli ed esclusivi. Quando le istituzioni statali sono deboli e alcuni gruppi sociali sono esclusi dal potere, gli impresari della violenza sono liberi di sfruttare le divisioni nella società per il loro tornaconto politico.
I risultati di Fearon e Laitin toccano entrambi i postulati: non ci può essere nulla di intrinsecamente violento nella diversità, ma quasi ogni divisione sociale può essere sfruttata per motivare la violenza. Gli alawiti, i cristiani e i sunniti della Siria, così come i sunniti, i curdi e gli sciiti iracheni, hanno molti più anni di convivenza pacifica che di guerra civile alle loro spalle. E’ stato solo quando la tenuta dello Stato è rimasta colpita che gli impresari della violenza si sono ritrovati liberi di strumentalizzare questa diversità per i propri fini politici.
Il cammino verso la pace in Siria e in Iraq non sta nella partizione, ma nel ripristinare il controllo dello Stato e renderlo più inclusivo. Ripristinare il controllo del governo nelle regioni contestate di Siria e Iraq sarà estremamente difficile e certamente richiederà forze di pace internazionali, ma non dobbiamo permettere all’idea di spartizione di questi paesi di distrarci dal vero lavoro di riconciliazione delle persone che vivono al loro interno. Nena News
Adam R. Alexander è un candidato per il Master in Public Policy presso la Harvard Kennedy School. Ha nove anni di servizio come ufficiale dell’intelligence militare dell’esercito degli Stati Uniti alle spalle
Traduzione a cura di Giorgia Grifoni

 

 

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