Verità per Giulio: ben svegliati




Ben svegliati: nel mondo in cui l'Egitto è una dittatura ma non fa notizia. In cui il lavoro non è pagato. In cui i dittatori vengono accolti fin quando non è troppo tardi. L'editoriale di OssIraq.
osservatorioiraq.it



Ben svegliati: nel mondo in cui l'Egitto è una dittatura ma non fa notizia. In cui il lavoro non è pagato. In cui i dittatori vengono accolti fin quando non è troppo tardi. L'editoriale di OssIraq.  


Era il 4 febbraio scorso quando la notizia del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, al Cairo, irrompeva come una ferita nel quotidiano. Sequestrato, torturato, ucciso, gettato in un fosso: i segni sul suo corpo descrivono una dinamica che parla da sola.
E racconta di un regime militare brutale, di una dittatura spietata, di un paese che ha avuto una speranza - la Rivoluzione - e se l’è vista sequestrare, torturare e uccidere, proprio come ha fatto con Giulio.
Una costante violazione dei diritti umani, civili, politici, della libertà di stampa, di espressione e di parola, di associazione e manifestazione, che il popolo egiziano denunciava da tempo.
Eppure, come troppo spesso accade, ci voleva qualcosa che toccasse da vicino le nostre corde emotive perché la stampa e il mondo politico, in Italia, si accorgessero che in Egitto si era instaurata una nuova dittatura. 
Che i sogni della Rivoluzione si erano violentemente infranti contro la restaurazione di un regime tornato a farsi spazio nell’estate 2013, per affermarsi giorno dopo giorno, arresto dopo arresto. Una legge liberticida dopo l’altra, un desaparecido dietro l’altro, mentre quegli stessi attivisti di piazza Tahrir sino a poco prima osannati sparivano, lentamente, restando senza voce.
Per calcolo politico, poiché l’Egitto del generale Al-Sisi era diventato nel frattempo un buon amico dell’Occidente.
E per colpevole indifferenza e compiacenza di un sistema mediatico che rincorre la notizia solo finché è calda, poi può essere gettata al macero come i corpi massacrati dal regime. Fino alla vittima italiana, fino al prossimo evento di sangue che ci tocchi da vicino.
Accendendo la luce a intermittenza.
Ben svegliati, dunque, nel mondo in cui l’Egitto è una dittatura ma la cosa non fa notizia.
Eppure, a conoscerlo quel paese, sarebbe stato impossibile non riconoscere i caratteri chiari di un regime militare che andava scrivendo le sue regole. A guardarlo davvero, l’Egitto, a sporcarsi le scarpe sulle sue strade polverose, si sarebbero visti i 350 Giulio Regeni egiziani, che del nostro collega hanno fatto in questi due anni la stessa, terribile fine.
Collega, si. E la parola non è usata a caso. Giulio Regeni era uno di noi.
Apparteneva a quella comunità di esseri umani aperti e curiosi, desiderosi di viaggiare e sapere. Uno dei tanti non-più-così-giovani che partono per conoscere un mondo che amano, studiarlo, imparare a conoscerlo davvero, magari raccontarlo.
Non perché il mercato del lavoro in Italia costringa a partire. O almeno, non soltanto. Tante volte solo per amore di quel mondo. Per passione. Per coraggio.
Giulio apparteneva a quella “meglio gioventù” che il nostro sistema dell’informazione ha contribuito a bistrattare, emarginare, tenere fuori dalle redazioni con i posti pagati prenotati, salvo poi utilizzare il suo “inestimabile patrimonio di conoscenze” per creare alcune “tra le migliori pagine di esteri d’Italia”, come ha avuto l’ardire di scrivere qualcuno.
Senza retribuire compensi al loro impegno, al loro lavoro, al loro patrimonio di contatti. Quegli "inviati" speciali nel mondo (e sono proprio quelle virgolette a far male) che, in un insopportabile esercizio di retorica paternalista – scrivono “per il piacere di raccontare”.
Ben svegliati, dunque, nel mondo in cui il lavoro non è pagato, e ai “giovani” si chiede di lavorare gratis “per visibilità e prestigio”. A destra come a sinistra. 
Il nostro giornale, come tanti altri esperimenti editoriali indipendenti, si costruisce grazie all’impegno di giornalisti professionisti, pubblicisti, ricercatori, cooperanti, studiosi, osservatori e viaggiatori che scrivono gratis. Tutti, dal direttore all’ultimo arrivato. E tutti possono leggerlo, senza vendite o abbonamenti.
Lo facciamo per scelta e per passione. Per il piacere e per il bisogno di raccontare, scegliendo di farlo liberamente, anche quando le notizie non fanno notizia.
Tra collaboratori non c’è alcuna distinzione professionale che tenga: non è l'avere in tasca il tesserino di un Ordine inutile e superato a decidere chi è un giornalista. Tutto il resto sono chiacchiere, e difesa di una casta.
Per questo siamo convinti – anzi, ci permettiamo di sapere con certezza – che la presenza dentro i luoghi che si raccontano è una condizione imprescindibile, non una fortunata opzione. E se la figura del corrispondente che vive nel paese di cui parla le redazioni non possono più permettersela, forse è il caso di ripensarle, quelle redazioni. 
Denunciamo da tempo la necessità di una totale rivoluzione del modo di fare informazione, in particolare quando ci si occupa di mondo arabo, sul quale si tende troppo spesso ad una narrazione strumentalizzata, orientalista, con un linguaggio paternalista e coloniale. Crediamo in un’informazione che dia spazio alle fonti dirette, che dia voce ai diretti interessati, che conosca davvero le realtà di cui pretende di parlare.
Che eviti di proteggere le dittature come improbabile argine all’islamismo radicale e ai flussi migratori volontari o forzati, osannando le piazze nelle quali si riconosce (si leggaTahrir), ignorando quelle che – seppur massacrate – piacciono di meno (si legga Rabaa al-Adawiya).
Vale per l’Egitto di Al Sisi, per la Libia di Gheddafi, per la Siria di Asad, per l’Iraq di Al-Maliki e di tutti coloro che lo hanno seguito, solo per citarne alcuni. Invece che incensare o rimpiangere i dittatori, ci si ricordasse su quali parole le Rivoluzioni di cui ci siamo innamorati nascevano. Diritti, Dignità, Libertà.
Ben svegliati, dunque, nel mondo in cui quelle parole sono state calpestate, mentre qui ci si occupava di accogliere i dittatori. Gli stessi di cui ci si è accorti solo quando, improvvisamente, sono diventati nemici scomodi di cui liberarsi. O quando, come in questo caso, la vittima ha avuto il passaporto del nostro stesso colore.
Allora, vale forse la pena ricordare che la Rivoluzione egiziana nacque con la campagna “Siamo tutti Khaled Said”, giovane attivista egiziano che aveva fatto la stessa fine di Giulio. Di quella rivolta di popolo, oggi, resta vivo lo spirito, la giustezza delle rivendicazioni, il sogno.
“Non ricordo niente, se non che quella speranza era reale”, ha scritto di recente in una lettera Alaa Abdel Fattah, uno degli attivisti che nei giorni di Tahrir era sulle prime pagine dei nostri media, per sparirne presto quando il regime lo ha arrestato buttando la chiave della sua cella. Perché la notizia del suo arresto, in fondo, non era così interessante.
Ben svegliati, infine, nel mondo in cui qualcuno cercava di vedere e denunciare la realtà, mentre la stessa stampa che oggi piange la morte di un giovane italiano celebrava Al-Sisi come un leader “necessario”. 
“Al Sisi è un grande statista. L’Egitto sarà salvato solo con la sua leadership”, sosteneva il presidente del Consiglio italiano accogliendolo con tutti gli onori (La Stampa, 12 luglio 2015; Corriere della Sera, 15 luglio 2015).
D’altronde, negli ultimi due anni l’Italia ha stretto accordi economici con l’Egitto per la fornitura di gas, politici per la “lotta al terrorismo”, e gli ha venduto armi per oltre 3 milioni e mezzo di euro solo nel 2015, nonostante l’Ue avesse vietato di esportare nel paese qualsiasi “materiale utile a facilitare la repressione interna”. 
Come ha scritto il giornale indipendente egiziano MadaMasr, “Il governo italiano non è stupido, ha la sua intelligence e sa benissimo cosa succede qui. Ma voleva i suoi accordi sul gas. Voleva la sua coalizione anti-terrorismo. Ha sempre saputo quale fosse il prezzo da pagare. Semplicemente, ha dato per scontato che l’avrebbe pagato qualcun altro”.
Per il resto, non c’è altro da dire. Se non stringerci alla famiglia e agli amici di Giulio per la sua vita spezzata, esprimendo tutto il nostro dolore.
Continuando a chiedere che sia fatta verità e giustizia per lui e tutte le altre vittime del regime egiziano, senza lasciare che questa vicenda venga insabbiata, come già certa stampa nostrana sembra volersi rassegnare a fare per una comodità che verrà chiamata "realpolitik".
E lasciando parlare ancora una volta quegli attivisti e attiviste egiziani a cui anche lui, a suo modo, cercava di dar voce.

Speciale Egitto. Tre anni di denunce 

15 Febbraio 2016
di: 
Redazione
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