Trieste: dentro o fuori l’Italia?
Grotta
Gigante, una delle attrazioni naturalistiche più visitate del Carso
Triestino. Pullman provenienti da tutta Europa e scolaresche locali
affollano l’ingresso: una lunga serie di scalini li porterà in fondo a
questa sala immensa creata nel corso…
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Oggi Trieste vive le contraddizioni del suo passato e le incertezze del futuro, lontano dalle caratteristiche tipiche del Bel Paese. Italiani e sloveni convivono sotto l’etichetta di una multietnicità che viene spesso avvertita più dai visitatori che dagli abitanti.
di Fabio Dalmasso
Grotta Gigante, una delle attrazioni naturalistiche più visitate del Carso Triestino.
Pullman provenienti da tutta Europa e scolaresche locali affollano
l’ingresso: una lunga serie di scalini li porterà in fondo a questa sala
immensa creata nel corso dei millenni dallo scorrere del mitico fiume
Timavo. Una giovane insegnante di Como si avvicina ad alcuni bambini
che, con il naso all’insù per vedere le stalagtiti, pronunciano parole
in sloveno miste a frasi italiane.
«Ma voi lo capite l’italiano?» chiede curiosa. I
bambini si guardano e rispondono che si, capiscono l’italiano. La
professoressa lariana allora chiede: «Siete italiani quindi?». Una
bambina la guarda perplessa e subito risponde: «Si, cioè… di
cittadinanza italiana, ma siamo sloveni». «Di dove?». Attimi di
silenzio, i bambini si guardano senza dire nulla e prima i ritornare
dalla propria insegnate pronunciano sommessamente: «Trieste».
In questo breve scambio di battute è racchiusa la situazione di Trieste
e della zona giuliana: italiani e sloveni convivono sotto le etichette
di una multiculturalità e di una multietnicità che spesso sono avvertiti
più dai visitatori che dagli abitanti. Qualsiasi guida turistica,
infatti, non può esimersi dall’esaltare questa commistione di
nazionalità, lingue e culture che fanno di Trieste la città
mitteleuropea per eccellenza: un’eredità storica importante fa sì che
questa città di confine viva oggi in una situazione schizofrenica,
divisa tra un futuro fatto di scienza e tecnologie e un passato sempre
presente, con i suoi miti e le sue verità.
Un altro episodio curioso, di cui molti ancora oggi si ricordano,
potrebbe aiutare a capire meglio questa realtà apparentemente così
diversa: nel 2004, anno cruciale per Trieste in quanto cinquantenario
del ritorno della città all’Italia, l’ambita corona di Miss Trieste
incoronò la testa di Sara Jug,
bellissima diciannovenne che però, secondo alcuni rappresentanti
politici della destra locale, aveva un solo, piccolo difetto: era
slovena, per la precisione di Nova Gorica. Alcuni chiesero che fosse
inserita, nel regolamento per partecipare al concorso, una clausola
sulla cittadinanza italiana, mentre altri già prevedevano scenari futuri
in cui, partendo dalla corona di Miss Trieste, la Slovenia avrebbe
conquistato l’intera città. Trieste città assediata dagli sloveni
dunque? Per quanto possa sembrare assurda, o quantomeno anacronistica,
la “minaccia slava”
è ancora percepita da molti cittadini che mantengono un atteggiamento
ambiguo nei confronti dei loro vicini di casa e verso colori che vivono a
Trieste e provincia ma, come i bambini all’inizio del presente
articolo, appartengono alla minoranza slovena.
Un argomento, quella della minoranza, che suscita sempre grandi discussioni tra
i cosiddetti “triestini veraci”: «Già, la minoranza, ma perché non si
fanno contare una volta per tutte che così sappiamo quanto sono
effettivamente?». Sui numeri è, da sempre, battaglia aperta: secondo
alcune stime del ministero dell’Interno sarebbero circa 60-70 mila
coloro che parlano sloveno o dialetti sloveni in Italia, storicamente
presenti in Friuli-Venezia Giulia, raccolti nella provincia di Trieste e
nelle zone orientali delle province Gorizia e Udine. Cifre sulle quali,
però, non esiste alcuna certezza e creano terreno fertile per le
polemiche, da una parte e dall’altra. Secondo gli italiani, infatti, la
comunità slovena godrebbe di una serie eccessiva di diritti rispetto al
loro effettivo numero, mentre da parte slovena si lamenta la scontrosità
italiana, che a volte si traduce in aperta ostilità (1).
L’uso del termine sciavo usato per indicare, indiscriminatamente, tutto coloro che abitavano l’ex Jugoslavia,
fa parte delle abitudini consolidate di molti triestini che, a volte,
non ne percepiscono per intero la valenza negativa. E se il linguaggio è
un utile indicatore della situazione sociale, è interessante notare
come per riferirsi agli abitanti della Slovenia o della Croazia non sia
raro sentire dire «quei de là», cioè quelli oltre confine, con
l’implicita intenzione di rimarcare le differenze, le distanze mentali
(e non geografiche) tra le due realtà.
Un rapporto di vicinato, quello tra italiani e slavi,
che visse nell’annessione al Regno d’Italia di Trento e Trieste un
momento particolarmente difficile: se, infatti, si realizzava la tanto
agognata unità d’Italia, il nuovo assetto geopolitico, per la Venezia
Giulia, significava soprattutto la confluenza nell’ambito statuale
italiano delle minoranze slovene e croata che davano così un carattere
plurinazionale alle province annesse. Una convivenza che avrebbe avuto
bisogno di una rara oculatezza amministrativa e una buona collaborazione
democratica, ma che invece si trasformò in una mole di decreti e
ordinanze con tanto di tribunali militari che fece scemare l’entusiasmo
anche ai molti che salutarono con gioia l’annessione. In un clima così
difficile e delicato il fascismo trovò immediatamente i suoi adepti,
tanto che già il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla
fondazione dei Fasci di piazza San Sepolcro a Milano, avvenuta il 23
marzo 1919, venne creata la sezione triestina. Le violenze delle squadre
fasciste non tardarono a venire e gli obiettivi delle loro azioni
furono essenzialmente due: la classe lavoratrice e le minoranze slave:
«il loro scopo era quello di stroncare la opposizione socialista e di
far apparire le loro violenze come atti di “difesa nazionale”» (2). Il
13 luglio 1920, prendendo come pretesto l’uccisione di un ufficiale
della Marina Italiana a Spalato, le squadre fasciste assaltarono e
diedero fuoco al simbolo della minoranza slovena triestina, il Narodni
Dom, sede delle principali attività economiche e culturali slovene, ma
non solo.
Quasi a simboleggiare l’internazionalità di Trieste,
tra le mura del Narodni Dom, inaugurato nel 1904, si parlavano più
lingue, tra cui lo sloveno, il croato, l’italiano e il tedesco. Era
ospitato, inoltre, un centro culturale ceco. L’incendio del Narodni Dom
fu un episodio che segnò profondamente la comunità slovena locale: nel
2004 nello stesso edificio venne inaugurato il primo Centro Informativo
Sloveno, un ritorno a quella vivacità culturale ed economica che il
fascismo cercò di piegare e cancellare con l’italianizzazione forzata,
la chiusura delle scuole slovene e croate e la persecuzione di tutto
coloro che non rientravano nei canoni della “razza italica”. La
situazione che venne a crearsi nel dopoguerra risentì molto degli eventi
post 8 settembre 1943 e lasciò segni tangibili sulla società triestina.
L’attuale distanza avvertita tra italiani e slavi , infatti, deriva
anche (ma non solo) dalla situazione geopolitica al termine del secondo
conflitto mondiale: i quarantatre giorni di presenza dell’esercito
jugoslavo a Trieste (dal 1° maggio al 12 giugno 1945) vengono ancora
ricordati come vera e propria occupazione militare. I giornali locali,
ricordando l’anniversario, scrivevano, il 13 giugno 2008, «Quel 12
giugno 1945 Trieste si liberò dall’occupazione titina», descrivendo tale
periodo come «una cupa parentesi istituzionale, politica e sociale».
La valutazione dei cosiddetti «40 giorni»,
ovviamente, fu diversa a seconda delle posizioni ideologiche e della
propria nazionalità, ma il terrore che la città potesse, alla fine,
entrare a far parte della futura Jugoslavia era presente in molti
cittadini italiani. Paura per il futuro che poggiava anche sul terrore
provocato dalla voci sulla vendetta in atto da parte slovena e croata
nei confronti degli italiani: si è scritto e detto molto (spesso a
sproposito) attorno alle vicende legate alle foibe, ma occorre ricordare
come esse siano da inserirsi nel contesto storico – sociale del momento
e, soprattutto, non bisogna slegarle dagli eventi che le precedettero,
cioè l’occupazione fascista prima e nazista poi. Una presenza, quella
fascista, che non fu sicuramente delle più tenere: le violenze
perpetrate alla popolazione con la scusa della lotta antipartigiana
trovarono la loro approvazione nella famosa Circolare 3C del 1942,
firmata dal generale Mario Roatta e distribuita fino ai comandi di
battaglione e di reparto. Tale circolare, in diretta relazione con il
decreto del gennaio 1942 emanato da Mussolini per regolare «i rapporti
tra le autorità militari e quelle civili in materia di pubblica
sicurezza e di ordine pubblico», iniziava con la frase: «il trattamento
da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per
dente, ma bensì da quella testa per dente».
Il piano di «normalizzazione» venne applicato scrupolosamente
dal comandante dell’XI corpo d’armata Mario Robotti: dopo essersi
dichiarato favorevole all’«internamento di tutti gli sloveni per
rimpiazzarli con gli italiani» per «far coincidere le frontiere razziali
e politiche», Robotti accennò al cosiddetto «trasferimento completo»,
la deportazione, cioè, di tutti gli uomini validi nel lager di Rab
(Arbe), sempre senza interrompere le operazioni di «esecuzione di tutte
le persone responsabili di attività comunista o sospette tali». Sua la
famosa frase: «si ammazza troppo poco». Tutto questo creò,
inevitabilmente, un sentimento di astio verso quegli italiani che si
macchiarono di crimini orrendi e di nefande violenze: un sentimento di
vendetta, dunque, andò ad aggiungersi a un evidente disegno di
annessione territoriale dell’intera Venezia Giulia. I crimini commessi
da entrambe le parti, dunque, formarono crearono le basi sulle quali
crebbe, in seguito, la diffidenza e il reciproco sospetto che ancora
oggi caratterizzano i rapporti tra triestini e sloveni o croati.
Nel dopoguerra la città conobbe momenti difficili,
di tensione (come gli scontri del 1953), con un futuro incerto: il
ritorno definitivo all’Italia sancì un momento di svolta anche per la
mentalità dei triestini. Alcuni lamentarono la partenza dei militari
americani (soprattutto per le opportunità lavorative che la loro
presenza garantiva), mentre altri festeggiarono il tricolore italiano,
lamentando, però, la perdita definitiva dell’Istria e della Dalmazia,
argomento tuttora molto sentito soprattutto da parte degli esuli
istriano – dalmati e da parte di quella sfera nostalgico – fascista che
attira un numero notevole di trestini. Non a caso uno dei gruppi più
rappresentativi della scena RAC (Rock Against Communism) italiana si
trova proprio a Trieste e ha scelto un nome quanto meno emblematico
sotto il profilo geopolitico: Ultima Frontiera (3). Un rapporto
difficile, dunque, che, però, non ha impedito la nascita di
collaborazioni commerciali: sino alla dissoluzione della Jugoslavia,
infatti, era una normalità vedere numerosi pullman targati SLO o HR
varcare il confine e dirigersi sicuri vero il borgo Teresiano di
Trieste, un insieme di isolati costellato da botteghe e negozi in cui
gli jugoslavi venivano a fare incetta di tutti quei prodotti che nella
terra di Tito non arrivavano.
Parlando con alcuni triestini
è normale sentirsi raccontare episodi legato a questo fenomeno: le
molteplici paia di jeans indossati per poter varcare la frontiera, le
incette di Coca – Cola o scarpe da ginnastica che, una volta al di là
del confine, diventavano merce preziosa e rara. Miha Mazzini, scrittore
sloveno di cui è stato recentemente pubblicato il libro Il giradischi di
Tito, ha rievocato le emozioni provate nel varcare la frontiera oggi
che questa non esiste più: «Ho riprovato le stesse sensazioni di quasi
trent’anni fa. Le due polizie, i documenti, i maltrattamenti dei
doganieri, i trucchi per nascondere la valuta, gli italiani per cui
siamo sempre stati degli “zingari”… Ancora una volta il sentimento di
inferiorità. E, una volta arrivati, un’altra sensazione che avevo
dimenticato: l’impulso di comprare tutto, comprare subito, perché poi
non ci sarà più. Chi ha vissuto nei paesi socialisti lo sa»(4).
L’atteggiamento riservato agli acquirenti d’oltre confine non era dei
più gentili: molti ricordano la maleducazione e la presunzione dei
venditori (e alcuni tendono a specificare che non fossero tutti
triestini) e il modo con cui venivano trattati gli sciavi nei negozi. Un
atteggiamento che, però, non ha impedito a molti esercenti di
accumulare discrete ricchezze grazie allo shopping transfrontaliero.
Parallelo a tale fenomeno vi era quello inverso
legato, cioè, agli italiani che varcavano il confine per acquistare
merce a minor prezzo: dalla benzina alla carne, erano molti i triestini
che raggiungevano Koper (Capodistria) o le oltre città appena oltre
frontiera alla ricerca della convenienza. Inevitabili, anche qui, i
racconti inerenti il controllo da parte delle guardie slovene di
frontiera, tra incomprensioni e sospetti reciproci. Tali rapporti
commerciali, nonostante i notevoli cambiamenti politici post – ’89,
non hanno conosciuto soste: ancora oggi sloveni e croati giungono in
Italia per fare shopping incrociando, alla frontiera, gli italiani che
scelgono la Slovenia per fare il pieno di benzina o comprare stecche di
sigarette a poco prezzo. L’unico elemento che è mutato è che, il posto
dei venditori italiani di jeans e scarpe da tennis, è stato preso dai
cinesi: il borgo Teresiano, ora, è una piccola Chinatown in cui le
lanterne rosse fuori dai tanti negozi hanno ormai da tempo sostituito le
insegne italiane.
Un elemento storico che ricopre ancora un ruolo di
notevole importanza in questa città è quello legato all’Impero
Austriaco e al suo ricordo: secondo molti storici, l’originalità e la
diversità di Trieste vennero esaltate dagli avvenimenti del 1954: se da
una parte si assistette ad una certa esaltazione per il ritorno alla
“Madre Patria”, ben più consistente fu la riscoperta della propria
austriacità, di quel mito asburgico che da sempre covava sotto la brace e
non si era mai spento. Il ricordo dei tempi in cui Trieste era lo
sbocco marino ed emporio commerciale dell’Impero rivivono accanto alla
mitologia legata al periodo austriaco, in cui, come dicono molti ancora
oggi, la città era più pulita, non c’era bisogno di tanta polizia perché
non esisteva la delinquenza e si viveva bene, sotto tutti i punti di
vista. In un piccolo bar vicino al centrale viale XX Settembre è ancora
possibile notare, sul muro dietro la macchina del caffé, quadri di
Francesco Giuseppe e piccoli poster con l’aquila bifronte simbolo
dell’impero austro – ungarico. Un mito che non passerà mai, soprattutto
nelle generazioni più anziane.
Da notare come la proclamazione di Trieste porto franco, avvenuta nel 1719,
favorì non solo il passaggio da un’economia pigra a un insieme dinamico
di scambi commerciali, ma mutò anche la città e suoi abitanti che si
aprirono a rapporti sociali più mobili e aperti. Tale processo, però,
non venne avviata «dal patriziato cittadino, che non ha né i capitali né
l’intraprendenza necessari per imprimere una svolta alla vita di
Trieste e che vede in ogni novità una minaccia per i privilegi dei quali
gode all’interno del Comune, ma è invece promossa dall’esterno, dai
vertici statali […] è quindi il prodotto più di una cesura che di una
evoluzione interna nella storia del proto adriatico» (5).
A guardare oggi questa città dell’estremo Nord Est italiano
non può non ritornare alla mente la medesima atmosfera che
caratterizzava Trieste sotto l’Impero austriaco: una città
plurinazionale, crogiuolo e crocevia di culture, «una realtà innegabile,
ma difficilmente afferrabile. Trieste è stata contemporaneamente un
amalgama di gruppi etnici e culturali diversi […] e un arcipelago in cui
questi gruppi restavano isolati e chiusi gli uni agli altri» (6). Isole
culturali e nazionali, dunque, che vanno a formare un vasto e colorato
arcipelago, ma che raramente si mettono in contatto tra di loro.
In questo incontro-sconto di culture e nazionalità risiede la bellezza di Trieste:
il suo essere Italia, ma al confine estremo; il suo vagare lontana dal
centro politico e storico del paese, ma nonostante tutto sentire dentro
sé un nazionalismo forte e radicato, che non è un semplice patriottismo o
esaltazione della propria nazione, ma è un sentimento che va oltre e fa
sentire la città affetta da un bipolarismo notevole: italiani, si, ma
diversi dagli altri. Il triestino si sente diverso dai foresti, cioè da
quelli che parlano in lingua, in italiano, ma soprattutto si sente
lontano dai friulani, diversi per lingua e mentalità, e dagli sloveni, o
forse meglio dire, dagli slavi. Umberto Saba la definì la città più
fascista d’Italia e forse lo è, ma è un fascismo sui generis che trae la
sua linfa vitale proprio da quel confine, così vicino alla città, che
ha creato, e forse tuttora crea, nel triestino una situazione di
incomprensione sulla propria identità: «il figlio di una terra di
confine sente talora incerta la propria nazionalità oppure la vive con
una passione che i suoi connazionali stentano a capire, sicché egli,
deluso nel suo amore che non gli sembra mai abbastanza corrisposto,
finisce per considerarsi il vero e legittimo rappresentante della sua
nazione, più di coloro per i quali essa è un dato pacificamente
acquisito» (7).
È ancora Italia dunque Trieste? Paolo
Rumiz dice che «l’Italia, seppiatelo, finisce a Mestre. Solo che da lì
non comincia l’efficienza mitteleuropea. Sul binario per Trieste
cominciano i Balcani […] ti avvicini alla Jugoslavia-che-non-c’è e i
vagoni già sferragliano come a Bucarest, arrivano vuoti in una Trieste
che pare capolinea sul nulla» (8). Fulvio Tomizza parla di una «non
intera appartenenza italiana, in nome di una diversa mentalità, di un
rigore morale di origine non esclusivamente religiosa, di un differente
modo di sentire il rapporto con chi ci governa e con chi ci passa
accanto» (9). Un lembo d’Italia lontano dal centro, vissuto fino a ieri
come estrema difesa contro un mondo apparentemente lontano, ma in realtà
estremamente vicino. Trieste è cresciuta e ancora oggi vive sulle
contraddizioni: nel rapporto con gli sciavi, nel rapporto con gli
italiani e l’Italia stessa; nella sua vivacità culturale che però
dedicata attenzione allo scrittore Boris Pahor, appartenente alla
minoranza slovena, solo a molti anni di distanza dall’uscita del suo
capolavoro Necropolis celebrato, nel frattempo, in tutto il mondo (10);
una città che svetta sulle più alte cime della scienza e della
tecnologia mondiale con laboratori di prima eccellenza, ma rimane
ancorata a un mondo che non c’è più, legata a un passato di divisioni
che, si spera, non esiste più. Jan Morris ne fornisce un ritratto
estremamente sintetico, ma molto attento: «È un porto italiano di media
grandezza e ormai in là con gli anni, etnicamente ambivalente,
storicamente confuso, prospero solo a fasi alterne, appartato
nell’ultimo angolo superiore del mare Adriatico e a tal punto carente
delle consuete caratteristiche dell’Italia che ancora nel 1999, secondo
un sondaggio, circa il settanta percento degli italiani ignorava che
appartenesse al loro paese» (11).
Alla domanda se dunque Trieste sia ancora Italia
si potrebbe rispondere che si, la città giuliana è ancora Italia, ma,
contemporaneamente, è già qualcosa in più. Vive le contraddizioni del
suo passato e le incertezze del futuro in un presente schizofrenico,
particolare, lontano dalle caratteristiche tipiche italiane. Il suo
isolamento, anche logistico, ha favorito la crescita di un’identità
tutta sua, non descrivibile unicamente con gli schemi mentali propri
della nazione. Il dialetto come lingua ufficiale, anche negli uffici
pubblici, si mischia allo sloveno, al croato, al serbo e alle tante
lingue che unite aumentano la sensazione di essere altrove, in un mondo a
parte, in un nessun luogo, come dice Jan Morris. Un’ambivalenza che
rende unica questa splendida città stretta tra il mare Mediterraneo e il
Carso e che viaggia verso un futuro ricco di passato.
Note
(1) A fine giugno sono state segnalate nuove scritte offensive nei confronti della comunità slovena nei pressi di Prosecco e Borgo Grotta Gigante, paesi situati sul Carso triestino. Il Piccolo, quotidiano di Trieste, del 24 giugno 2008 riportava come «diversi segnali stradali bilingue sono stati inzaccherati e sporcati a colpa di spray […] livori e intolleranze che alcuni intendono perpetuare gravemente e a scapito dell’intera comunità locale».
(2) Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera – Trieste Istria Friuli 1919 – 1945, Aned Trieste, 1974.
(3) Da notare come una delle canzoni più famose di questo gruppo si intitoli proprio Terra rossa, in omaggio all’Istria. Il ritornello recita: «Istria Fiume e Dalmazia/né Slovenia né Croazia/Terra rossa, terra istriana/Terra mia, terra italiana/Terra dalmata e giuliana/Terra mia, terra italiana» a ricordare l’importanza ancora attuale che questo settore politico attribuisce alla perita di Istria e Dalmazia.
(4) Il Piccolo, 20 giugno 2008.
(5) Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino, 1982.
(6) Angelo Ara e Claudio Magris, Cit.
(7) Angelo Ara e Claudio Magris, Cit.
(8) Paolo Rumiz, È oriente, Feltrinelli, Milano, 2003.
(9) Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste, Bompiani, Bologna, 2000.
(10) Bisogna sottolineare come, anche da parte slovena, è stata piuttosto scarsa l’attenzione rivolta agli autori triestini: ha fatto notizia, nel giugno scorso, la traduzione di un’opera di Umberto Saba in sloveno. È la prima volta che questo accade.
(11) Jan Morris, Trieste o del nessun luogo, il Saggiatore, Milano, 2003.
(1) A fine giugno sono state segnalate nuove scritte offensive nei confronti della comunità slovena nei pressi di Prosecco e Borgo Grotta Gigante, paesi situati sul Carso triestino. Il Piccolo, quotidiano di Trieste, del 24 giugno 2008 riportava come «diversi segnali stradali bilingue sono stati inzaccherati e sporcati a colpa di spray […] livori e intolleranze che alcuni intendono perpetuare gravemente e a scapito dell’intera comunità locale».
(2) Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera – Trieste Istria Friuli 1919 – 1945, Aned Trieste, 1974.
(3) Da notare come una delle canzoni più famose di questo gruppo si intitoli proprio Terra rossa, in omaggio all’Istria. Il ritornello recita: «Istria Fiume e Dalmazia/né Slovenia né Croazia/Terra rossa, terra istriana/Terra mia, terra italiana/Terra dalmata e giuliana/Terra mia, terra italiana» a ricordare l’importanza ancora attuale che questo settore politico attribuisce alla perita di Istria e Dalmazia.
(4) Il Piccolo, 20 giugno 2008.
(5) Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Einaudi, Torino, 1982.
(6) Angelo Ara e Claudio Magris, Cit.
(7) Angelo Ara e Claudio Magris, Cit.
(8) Paolo Rumiz, È oriente, Feltrinelli, Milano, 2003.
(9) Fulvio Tomizza, Alle spalle di Trieste, Bompiani, Bologna, 2000.
(10) Bisogna sottolineare come, anche da parte slovena, è stata piuttosto scarsa l’attenzione rivolta agli autori triestini: ha fatto notizia, nel giugno scorso, la traduzione di un’opera di Umberto Saba in sloveno. È la prima volta che questo accade.
(11) Jan Morris, Trieste o del nessun luogo, il Saggiatore, Milano, 2003.
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