Due stati - una Patria:
utopia durante un'ondata
di terrore?
di Rimmon Lavi
Ci troviamo sia in Europa, sia in
Israele di fronte al dilagare di un terrore che pare senza
spiegazione e senza soluzione razionale. In Israele l’attuale
periodica ondata è iniziata ad agosto con il rogo doloso di una
famiglia palestinese vicino a Nablus (ancora latitanti gli
assassini ebrei) ed il successivo eccidio-vendetta di una coppia
di coloni ebrei: l’ondata sembra incontenibile proprio perché
virale e non organizzata. Nessuno sa cosa proporre a breve
termine per ridurre l’infatuazione suicida di giovani
palestinesi dopo 48 anni d’occupazione.
In tale atmosfera di
disperazione pare forse assurdo presentare ai lettori di Ha
Keillah una nuova iniziativa di pace, che sembra ancora più
utopica ora di quanto lo fosse già quando è nata più di un anno
fa con il lavoro comune di Meron Rappaport (noto traduttore
dall’italiano in ebraico) e Awni-El-Mashni. Ma forse proprio
adesso c’è bisogno di pensare “fuori dalla scatola” per aprire
una nuova speranza di eguaglianza e cooperazione per un futuro
migliore, in luogo della presente convivenza forzata ed iniqua,
che produce violenza ed inevitabile progressivo “apartheid”.
L'idea -
presentata sul sito
http://www.2states1homeland.org - propone la formula
“assieme e separati” , cioè due
stati indipendenti in un territorio nazionale comune, aperto a
tutti i loro cittadini, profondamente legati alla patria comune
tra il mare e il Giordano , unitaria per storia, geografia,
cultura ed economia. I due popoli potranno così realizzare in
piena eguaglianza e in mutuo rispetto il loro reciproco diritto
all’auto-determinazione e alla sicurezza, inclusa l’attribuzione
di cittadinanza a nuovi eventuali immigranti ebrei in Israele e
a rifugiati palestinesi che volessero tornare in Palestina.
Organi comuni assicureranno la collaborazione in campi di
sicurezza, ecologia, acqua, economia, per assicurare i diritti
umani dei residenti nei due stati e per coordinare la lotta
contro ogni forma di terrore.
L’apertura graduale
della frontiera (basata sulla linea verde del 1967) per turismo,
visite, lavoro e commercio in tutto il territorio comune sarà
reciproca, progressiva e concordata tra i due governi, come sarà
concordato il numero di cittadini di ognuno dei due stati che
potranno risiedere nell'altro stato, senza esserne cittadini, ma
con tutti i diritti di pacifica residenza, soggetta alla legge
locale, mentre il diritto di voto sarà espresso negli organi
politici del rispettivo stato di cittadinanza.
Gerusalemme resterà
unita e aperta come capitale dei due stati, entro limiti
concordati, governata con organi comuni, speciali e
paritetici. I residenti palestinesi saranno cittadini della
Palestina e quelli israeliani d'Israele. I luoghi santi saranno
diretti in collaborazione da rappresentanti delle diverse
religioni e della comunità internazionale, per assicurare
libertà di culto a tutti.
Saranno assicurati
pieni diritti civili personali e di gruppo ai cittadini arabi
nello Stato d’Israele, con rappresentanza proporzionale negli
organi di governo, in parallelo alla possibilità di uno status
simile in Palestina per ebrei che preferissero averne la
cittadinanza invece della residenza permanente.
Le riparazioni dei
torti reciproci durante il prolungato conflitto e dei diritti
dei profughi non creeranno nuovi torti, e i due stati
risolveranno eventuali conflitti solo con mezzi pacifici.
Durante il 2015
l’iniziativa è stata presentata e discussa, sia in pubblico in
Israele sia informalmente in Palestina, sulla base di un
manifesto in ebraico, arabo e inglese, con la partecipazione di
varie centinaia di israeliani e palestinesi: coloni ebrei
assieme ad arabi residenti e rifugiati dal 1948 nei territori
occupati, cittadini israeliani ebrei e arabi, ortodossi,
musulmani, cristiani e laici. Gruppi di studio misti o paralleli
di esperti provenienti anche da varie università israeliane e
palestinesi hanno collaborato ad analizzare come promuovere
l’iniziativa nei suoi vari aspetti: coordinamento governativo;
cittadinanza, residenza e libertà di movimento; Gerusalemme,
verso un'autorità metropolitana in comune; rifugiati; rimpatrio
(ritorno-aliyà) e immigrazione; accordi di sicurezza. I
risultati di questi lavori sono stati pubblicati in tre lingue
col titolo “Two states in One Space” dall’IPCRI (Iniziative
Regionali Creative Israelo-Palestinesi). Tra gli altri, ha
collaborato anche l'italiana Benedetta Berti, docente di scienza
politica all'INSS (Istituto di Studi di Sicurezza
Nazionale) presso
l'Università di Tel - Aviv.
Questi lavori dimostrano
comprensione delle visioni storiche e degli interessi
esistenziali delle due parti, ebraica e palestinese, e sincera
ricerca di soluzioni "giuste" ed equilibrate per i due popoli,
sia dal punto di vista pratico che simbolico. I lavori
dimostrano inoltre sensibilità verso le tragedie sofferte dai
due popoli: i problemi di base del conflitto quasi centenario si
sono aggravati durante gli ultimi 48 anni a causa sia della
colonizzazione ebraica nei territori occupati nel 1967, sia
dell'identificazione della resistenza palestinese con le forme
di terrore islamico globale che minacciano uno "scontro di
civiltà e di religione" insolubile.
L'incredulità
caratterizza l'assenza quasi totale di reazione dalla parte di
soggetti istituzionali palestinesi, dei media, e del
centro-sinistra israeliano: nessuno valuta che l’iniziativa
possa essere accettata dal pubblico sia israeliano sia
palestinese, e quindi viene ritenuta priva di valore politico o
mediatico da sfruttare a breve termine o da presentare come meta
e programma alternativi per tornare al potere.
La destra israeliana,
che non s’interessa a iniziative di pace e la maggioranza dei
coloni nazional-religiosi sono naturalmente furibonde, sia per
la collaborazione
all'iniziativa di coloni religiosi, allievi del deceduto rabbino
di Tekoa Menahem Froman, sia per la legittimità accordata tanto
a uno stato palestinese su parte della Eretz Israel "intera",
quanto, peggio, alla prevista possibilità di "ritorno" dei
profughi palestinesi del 1948 in Palestina come cittadini, e
persino in Israele come residenti, se lo volessero. L’attuale
maggioranza al potere non può immaginare che i coloni ebrei
restino in Palestina non da padroni ma come "residenti" (invece
dell’espulsione per lo meno parziale inclusa in tutte le altre
proposte), e non riconosce l’assenza di speranza per i
Palestinesi, i quali, a suo parere, dovrebbero ringraziare Dio e
Israele per la loro migliore sorte rispetto a quanto succede a
popolazioni arabe in vicine zone di conflitto.
Le formazioni della
sinistra radicale in Israele, tanto più piccole quanto più
divise, esitano a prendere posizione, malgrado il coraggioso
tentativo di rendere legittimo e realizzabile il "diritto al
ritorno" di profughi palestinesi, rifiutato assolutamente da
tutto il consesso sionista (come a suo tempo anche le idee di
due stati e di Gerusalemme non solo ebraica). È difficile, per
chi si definisce anticolonialista, accettare che colonie
ebraiche in Cisgiordania, fondate durante l'occupazione militare
infrangendo la legge internazionale, appunto per impedire la
possibilità di autodeterminazione palestinese, possano restare
in loco. Molti (dei pochi) predicano o sognano la creazione
(miracolosa?) di uno stato unitario, pluralista, democratico,
laico e postcoloniale, che sembra oggi ancora più utopico, dato
il terrore locale e quello fondamentalista in Europa, Africa e
Medio Oriente.
Più problematica è la
reazione dei gruppi palestinesi d'opposizione popolare di
sinistra, che hanno impedito la presentazione stessa
dell'iniziativa in una cittadina palestinese, perché considerata
come un passo tipico di "normalizzazione" dello stato
d'occupazione (che dura da 48 anni). Questi gruppi ritengono che
le iniziative paritetiche rinforzino, anche se non nelle
intenzioni oneste dei loro promotori, l’illusione che la attuale
“coesistenza” forzata ed iniqua possa continuare con soli
piccoli miglioramenti di forma (coesistenza oggi sconvolta dai
pugnali di adolescenti).
Anche senza tenere il macabro calcolo di
chi ha sofferto o ha fatto soffrire di più, l'impressione di
equilibrio paritetico - che ci sembra dare speranza per un
futuro di maggiore giustizia, come condizione di pace durevole
- non è comune a chi esperimenta giorno per giorno
l’occupazione. Perciò lo stato di profonda ingiustizia e
ineguaglianza odierna tra le due parti deve essere riconosciuto
fin dall’inizio e non solo riparato nel futuro: si deve iniziare
subito il "Tikkun", tanto per usare termine ebraico.
Peraltro, sia la nuova
iniziativa, tanto positiva, che vi presento, sia le critiche
della sinistra radicale israeliana e dell'opposizione
palestinese non affrontano il cambiamento delle forze in gioco
nel Medio Oriente attuale, sempre più instabile e imprevedibile.
L'analisi anti-colonialista può forse spiegare parzialmente in
quali condizioni economiche, sociali e politiche alcuni di
questi fenomeni possono essersi sviluppati, ma non dà nessuna
indicazione su quale strategia potrebbe contenere questi
fenomeni una volta maturati, o indirizzarne positivamente le
energie già scatenate. Per promuovere la ricerca di una
soluzione, si devono ridurre i timori che ogni passo o
concessione di una parte all'altra possa aggravare la situazione
per la propria popolazione. In questa zona e in questo periodo
d'instabilità, la gente, e non solo in Israele, trova lo status
quo conosciuto (anche se cova chiaramente i semi di continua,
periodica e sempre peggiore sventura) meno pericoloso di un
cambiamento senza garanzie per un futuro ignoto.
Vorrei concludere
questa presentazione di una iniziativa piena di buone
intenzioni, di proposte molto interessanti e di serie analisi
sperando che si riesca a proporre atti sia formali sia anche
pratici che rendano possibile la sua divulgazione in circoli più
vasti.
Quanto al fatto
che sembri un’utopia, basta pensare che anche lo stesso progetto
sionista, nato sullo sfondo del processo Dreyfus e dei pogrom in
Ucraina e Moldova, non sembrava certo meno utopico e
irrealizzabile, e che esso non si sarebbe potuto attuare, anche
se certo in modo molto diverso dalle intenzioni originarie,
senza la forza della visione
iniziale.
Rimmon
Lavi,
Gerusalemme
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