Quel sapore complottistico in certe ricostruzioni della morte di Giulio Regeni


 
 
 
 
 
 
Il corpo morto di Giulio ha gettato moltissima - troppa - luce su come la sicurezza venga mantenuta in Egitto: un danno 'collaterale' per il potere imbarazzato tanto al…
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I funerali di Giulio Regeni a Fiumicello, così eleganti nella loro semplicità, non hanno chiuso il dibattito sulla morte del giovane dottorando italiano. Lacune e chiaroscuri rendono nauseabonda l'assenza di una verità rispettosa della nostra intelligenza. Il Cairo e Roma si rimpallano versioni dei fatti contrastanti. L'Egitto del generale al-Sisi nega di aver arrestato Giulio Regeni il 25 Gennaio 2016, il giorno del quarto anniversario della rivoluzione. Ammetterlo, d'altra parta, significherebbe ammettere di averlo ucciso. È bene non illudersi: una verità ufficiale probabilmente non l'avremo mai. A meno di assai improbabili colpi di scena, questa è l'unica certezza cui possiamo ancorare il senno.
La verità è politicamente troppo costosa sia per l'Egitto sia per l'Italia assieme al resto dell'Europa che sul generale al-Sisi ha ormai posto l'ipoteca per una fantomatica lotta al terrorismo. Il messaggio di questi giorni è chiaro: né alla Farnesina né a Bruxelles qualcuno ha intenzione di alzare la posta con il generalissimo al-Sisi. Questo è - in sostanza - il "ring of friends" di cui siamo cinti, per mutuare l'espressione coniata da Romano Prodi quando nel 2003, da presidente della Commissione Europea, promosse la nuova politica di vicinato. L'espressione era infelice già allora, in tempi solo apparentemente meno sospetti, in un'Europa che nel vicinato si promuoveva paladina della "società civile" ma firmava soprattutto accordi con i dittatori.
Quello che davvero in questi giorni fa male alla nostra intelligenza è la speculazione sui fatti e sui dettagli che emergono dalle indagini di Roma. Ne sono usciti rinvigoriti due filoni letterari piuttosto in voga su una certa stampa del nostro paese: quello delle insinuazioni complottistiche e quello delle congetture campate in aria.
Giulio era una spia dei servizi italiani - congettura ripresa da autorevoli testate che al contempo ironizzavano sul fatto che il ricercatore mandasse i suoi articoli al Manifesto. Seppur decaduta presto, lasciando tracce qui e lì, l'insinuazione (basata, ricordiamolo, su nessuna prova tangibile) non si presta ad essere liquidata come innocente speculazione da buontemponi. Per dirla più direttamente: nel recinto dell'accorato patriottismo italiano, quanto vale un giovane che indaga sull'attivismo sindacale in un paese straniero, nel bel mezzo di una lunga e faticosa trasformazione politica? Al di là della speculazione, resta infatti intatta la retorica del "se l'è andata a cercare" - prevalsa proprio perché Giulio, contrariamente a quanto si sbandiera, non era affatto "uno di noi": Giulio non pensava - come ormai è stato deciso di farci pensare - che al-Sisi è comunque il meglio che l'Egitto possa produrre per la "nostra sicurezza". Quando l'ex ministro degli esteri Terzi rimandò in India i due Marò, accusati di omicidio, l'Italia si sdegnò di fronte al timore, sotteso alla decisione della Farnesina, di una vendetta commerciale da parte di Delhi che sembrava fosse prevalso sulla vita dei due connazionali. Adesso una parte consistente dell'opinione pubblica italiana ha già assolto il regime egiziano e accettato di buon grado la rinuncia di Roma a far della morte di Giulio una faccenda politica.
La seconda congettura è quella delle infiltrazioni dell'islamismo radicale nei servizi d'intelligence egiziani. Oltre all'assenza totale d'indizi (anche qui), colpisce che "l'islamismo radicale" cui si fa riferimento sia spesso quello della Fratellanza musulmana: definizione di per sé molto problematica. La Fratellanza, pur essendosi distinta per incapacità di governare il paese tra il 2012 e il 2013, ha pur sempre prodotto il primo parlamento e il primo presidente democraticamente eletto dell'Egitto repubblicano. La sua categorizzazione come 'gruppo terrorista' dopo il golpe militare del 2013 che depose Mohammed Morsi, fu il frutto di pressioni strategiche di un altro grande alleato dell'Occidente, l'Arabia Saudita, a sua volta protettore dell'Egitto di al-Sisi e finanziatore del colpo di stato contro Morsi. La casa dei Saud ha un problema di rivalità politica e strategica con i Fratelli Musulmani, che peraltro vede - se proprio vogliamo addentrarci negli aspetti dottrinari - come 'troppo liberale'. Circa la congettura, basterà dire che non si è spinto fino a questo punto neppure il Cairo, sempre pronto a far della Fratellanza il capro espiatorio di tutti i mali del paese. Il ministro degli interni egiziano si è limitato a dire che la brutalità dei suoi servizi di sicurezza non è che una maldicenza messa in giro dai Fratelli Musulmani per screditare il governo di al-Sisi.
La terza, e più recente, strada complottistica si basa sul fatto che le informazioni di cui Giulio era entrato in possesso fossero state passate al suo supervisor di Cambridge e, quindi, potrebbero essere filtrate al di fuori dell'ambito accademico. La pista vorrebbe far intendere che Giulio è stato forse vittima di un complesso network di spionaggio britannico, con cui erano collusi i suoi professori di Cambridge. C'è, insomma, un passaggio concettuale dal "se l'è andato a cercare" al "sarà stato incastrato". Anche qui, è bene sottolinearlo, si tratta - fino ad ora e salvo colpi di scena - di pura speculazione e non di analisi di fatti concreti, che peraltro ignorano la prassi comune a qualsiasi dottorando di comunicare i dati della propria ricerca al suo supervisor.
Le teorie del complotto servono in genere a complicare un quadro semplice per non mostrare quello che pare ovvio a tutti. La realtà, nella maggior parte dei casi, disarma proprio per la sua banalità. Khaled Fahmy, uno dei più grandi studiosi e conoscitori dell'Egitto contemporaneo, ha fatto notare come la paranoia dei servizi di sicurezza egiziani, da cui Giulio è stato verosimilmente torturato a morte, potrebbe facilmente aver spinto la catena di comando - volontariamente e meno - oltre un punto di non ritorno: un punto, cioè, oltre il quale era impossibile restituirci Giulio vivo e testimone 'occidentale' della realtà delle carceri egiziane.
Nonostante tutto, il corpo morto di Giulio ha gettato moltissima - troppa - luce su come la sicurezza venga mantenuta in Egitto: un danno 'collaterale' per il potere imbarazzato tanto al Cairo quanto a Roma. Ed è qui che la trama fantasiosa dei complotti interviene a deviare l'attenzione dal vecchio e troppo spesso vilipeso 'buon senso comune' - anche se a volte, purtroppo, non così comune. È inevitabile, infatti, constatare che gran parte dell'opinione pubblica, forgiata da una coatta narrazione del potere, abbia già assolto il generale al-Sisi.
Al di là della verità sulla morte di Giulio, i riflettori accesi in questi giorni su quelle pratiche quotidiane della sicurezza in Egitto, ci dicono una cosa difficile da fraintendere: l'unica sicurezza in Egitto è quella del regime politico, non quello dei cittadini che uno stato dovrebbe proteggere e tutelare. E si tratta della stessa sicurezza che continuano a finanziare i governi europei, ignorando i crimini perpetrati ai danni di chiunque si allinei con le forze del cambiamento.
Quello che semmai è difficile da cogliere è il perché questo avvenga: non perché al-Sisi sia un 'baluardo della lotta contro il terrorismo' - filastrocca ripetuta e ritweettata fino alla nausea. Al contrario: come hanno imparato a fare tutti i leader arabi alleati dell'Occidente da almeno 15 anni, al-Sisi usa il terrorismo - quello reale e quello mitologico - con la carota e il bastone, per tenere in scacco i governi amici e attrarre aiuti militari. Continuiamo a finanziarlo e a reggere la sua narrazione dei fatti, perché il cambiamento politico in Medio Oriente è troppo costoso anche per noi. Alla faccia di venticinque anni di retorica europea sulla sponsorizzazione della società civile, del tutto abbandonata proprio quando essa ha cercato di essere forza del cambiamento politico.
Non c'è spazio per fasi d'incertezza e mutamento degli interlocutori nell'era della globalizzazione economica e finanziaria. Le aspirazioni alla democrazia e ai diritti sono un privilegio per illusi. Le geografie territoriali o sociali della sicurezza e dell'insicurezza coincidono, curiosamente, con quelle della protezione degli affari, anche in contesti di estrema violenza. I miti della protezione nazionale, della divisione tra Occidente "sicuro" e Oriente "insicuro", tra la sponda settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo, sono un palliativo che devia costantemente l'attenzione dalla sfera della "sicurezza che conta" e di cui tutti siamo un po' vittime: quella, cioè, delle élite politiche, economiche e finanziarie, intrecciate tra loro in una dimensione transnazionale che copre perfettamente lo spazio globale. In essa le fantomatiche culture "orientali" o "occidentali" si baciano e si fondono fin a quando si stringono alleanze, si firmano contratti e si trasferiscono capitali.
Questa dimensione non conosce confini materiali, non ha vincoli per le leggi che promulga o di cui beneficia, a meno che il conflitto non sia interno ad essa: allora un leader viene sacrificato per farne un altro. È una dimensione al di sopra delle torture a morte nelle carceri, della guerra dei visti e delle richieste di asilo, della fuga disperata dalle bombe, delle code alle frontiere: la vera frontiera è tra chi è dentro e chi è fuori questa élite. Il rafforzamento dei confini nazionali, assieme all'illusione che un dittatore sull'altra sponda del Mediterraneo possa aiutarci a preservarli intatti, fa acqua, esattamente come i patetici tentativi di coprire le responsabilità di un regime che - al di là di ciò che è stato fatto a Giulio - sta distruggendo attraverso la tortura, le sparizioni e gli omicidi, il tessuto di una società che pure ha prodotto grandissime idee nel passato: con il solo obiettivo di rimanere al potere.
Il passaporto, 'forte' o 'debole' che sia, diventa carta straccia quando si cerca, in qualsiasi modo, di andare contro questa logica. Conscio della complessità del mosaico politico del paese che studiava, Giulio andava a cercare - e tesseva legami - lì dove si produce il cambiamento. I sindacati in Egitto hanno incubato almeno a partire dal 2006 la rivoluzione poi esplosa nel 2011, soffocata a più riprese, anche se mai del tutto morta. Quanto ci interessa davvero questa complessità, quanto ci interessa coltivarla, in un'era in cui il sindacato - al di là delle sue manifestazioni specifiche - è diventato sinonimo tout court di fardello che ritarda affari, politica e affari della politica? "La rivoluzione - chiosava Pier Paolo Pasolini in Alba Meridionale - non è che un sentimento".

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