Patrizia Cecconi :Report dalla Striscia di Gaza: un venerdì tra campi profughi e villaggi di confine

Report dalla Striscia di Gaza: un venerdì tra campi profughi e villaggi di confine

Gaza 30 gennaio 2016 

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di Patrizia Cecconi,
Gaza, 30 gennaio 2016
Il venerdì è giorno di festa in Palestina ma nella Striscia di Gaza i suq al mattino sono aperti, così accetto l’invito di Fatima e vado a fare un giro al suq di Jabalia. 
Qui le verdure e la frutta provengono esclusivamente dal nord della Striscia e i contadini arrivano ogni giorno con i carretti tirati da muli e asinelli a vendere quel che riescono a raccogliere dai loro campi nonostante i frequenti impedimenti degli assedianti.

Contiguo alla cittadina di Jabalia, che conta circa 83.000 abitanti c’ è l’omonimo refugee camp, quello da cui provenivano i 4 contadini investiti e uccisi nel dicembre del 1987 da un camion di soldati occupanti. Il fatto rappresentò la scintilla che fece esplodere la rabbia per gli abusi conseguenti all’occupazione e diede il via alla prima “intifada”.
Il campo di Jabalia è il più densamente abitato tra tutti i campi profughi e conta circa 93.000 abitanti, superando la popolazione della cittadina omonima.

Va notato che nonostante la Striscia sia molto stretta, Israele, non contento di murarla, vuole tenere anche un margine “di rispetto” impedendo ai contadini palestinesi di coltivare i campi più vicini al confine, ma nonostante ciò dalla zona arriva ogni giorno abbondante  frutta e verdura e poi arriva pesce,  perché la Striscia è bagnata dal mare in tutta la sua lunghezza.

Nella piazza centrale del paese è interessante notare il contrasto tra gli asinelli che portano verdure e i cartelloni pubblicitari di cosmetici italiani identici a quelli che colorano le strade del consumismo occidentale. Ma anche all’interno del suq sono interessanti altri contrasti, come quello tra alcune donne coperte dal niqab rigorosamente nero e la loro attenzione agli abiti femminili da cerimonia, spesso scollati e ricchi di ricami luccicanti esposti tra scarpe, pesci, frutta e verdura.   

Altri contrasti, di differente natura, sono evidenti anche fuori dal suq, in particolare nel campo profughi, dove la maggior parte delle abitazioni  sono catalogabili come poveri tuguri resi meno tristi solo dall’applicazione creativa di un fiore, o di un velo colorato o di una pennellata che rompe il grigiore del cemento, e un’altra parte di abitazioni che, invece, ha l’aspetto di case borghesi, con  varie stanze ben arredate. Inoltre c’è anche qualche caso, raro ma ben visibile, di vere e proprie  ville con sottostante giardino, come quella di un politico, peraltro stimato, che affaccia i rami dei suoi alberi sulla strada che delimita il campo.

Ma queste sono contraddizioni sociali interne a qualunque società e non provocano la morte di centinaia o migliaia di persone, né portano alla distruzione di migliaia di case come fatto di norma dal democratico stato di Israele in questa parte del mondo. 

Durante il giro a Jabalia si sono avvicinati un bel numero di ragazzini, alcuni hanno l’aria dello scugnizzo napoletano e sono curiosi, simpatici, apparentemente disinibiti e incredibilmente socievoli. Lo sono anche i bambini della Cisgiordania, ma quelli di Gaza ancor di più anche se è risaputo che moltissimi di loro soffrono di disturbi dovuti ai tanti traumi che le frequenti aggressioni israeliane comportano.

Ci seguiranno per un paio d’ore, il tempo per noi di vedere cosa significa vivere troppo vicini a Israele e aver subito la particolare attenzione del suo esercito. Tra villaggio e campo profughi i segni sono pesantissimi, ma qua e là si comincia a ricostruire e anche a ripiantare gli olivi che sono stati distrutti.

Una cosa mi colpisce molto nel campo profughi, il fatto che alla povertà estrema di chi ha per casa uno stanzone con un po’ di materassi e un angolo per cucinare, si accompagna il desiderio di riscatto che porta a fare enormi sacrifici economici pur di consentire a figli e figlie di laurearsi. Così abbiamo la ragazza laureata in farmacia o in radiologia o in matematica che vive in un tugurio in cui è difficile immaginare come potesse trovare uno spazio per concentrarsi, o il ragazzo laureato in ingegneria o in legge senza esser mai potuto uscire dai pochi chilometri della Striscia perché Israele, che per assoluta ingiustizia e complicità, si comporta come il padrone delle altrui vite lo impedisce.

Eppure questi ragazzi, cresciuti in una prigione lunga 40 chilometri e larga molto meno, studiano, imparano le lingue, sorridono ai pochissimi stranieri che riescono a entrare nella loro prigione e sperano. Sognano e sperano. 

Una delle famiglie che sono andata a trovare vive in una situazione difficile da immaginare, eppure la ragazza che mi accoglie è laureata in farmacia e io conosco i suoi parenti che vivono a Londra in una bella villetta e che l’accoglierebbero con gioia… ma Israele tiene le chiavi della sua vita e ha deciso che dalla sua prigione questa ragazza non deve uscire. Così lo zio, ma anche le sue figlie, hanno sostenuto le spese dell’università, perché la famiglia palestinese ha qualcosa di molto forte che non si cancella con la distanza, né si piega all’assedio, si chiama solidarietà. Solidarietà reale, e spunta da radici così profonde che tengono unite le famiglie sia tra di loro, sia alla propria terra d’origine,  nonostante decenni di diaspora.

E’ una giornata dura quella di oggi. 

Per me, che vado sempre alla ricerca della bellezza, oggi è veramente dura perché non è facile trovarla qui a Gaza. Non perché non ci sia, ma perché è sepolta dalla crudeltà dell’assedio. Ora, per esempio, potrei evitare di andare ad Albreish o a Shijjaya, luoghi dove Israele ha massacrato più che altrove, ma andarci è necessario e così si va. 

Quì i segni dei bombardamenti  restano evidenti  più nelle costruzioni sfondate ma rimaste in piedi che nelle altre di cui non c’è più che qualche sasso. 

A Shijjiaya tra il fango di una strada sterrata e una scuola dell’Unrwa utilizzata come ricovero sorge un villaggetto di container con qualche lastra di banda zincata che prova ad assicurare un minimo di privacy tra un container e l’altro. Lì, una signora alla quale dopo il passaggio di Israele non è rimasto altro che alcuni familiari, ci ha accolto con un grande sorriso invitandoci ad entrare e scusandosi per il fango come se fosse colpa sua! Non entriamo, ma ci colpisce un bel parco giochi nuovo nuovo con una tenda che porta ben impresso il nome del donatore: UNICEF. E’ recintato. 
La signora che vive nel container ci dice che i bambini possono entrare solo quando l’Unicef organizza delle feste, altrimenti possono solo guardarlo da fuori. 

Chissà perché, ma alla traduzione di quelle parole mi è venuto alla mente un verso di un’antica canzone anarchica che parla di poveri che vengono portati a morire negli ospizi da nobili e virtuose signore, e conclude così: “e sul berretto di noi reclusi, bollano i ricchi la lor pietà”.  Non mi soffermo sulla giustezza di quest’associazione di idee perché la signora vede che mi fermo a prendere una punta di rosmarino che ha piantato intorno al suo container e immediatamente ne 
spezza dei rametti per ognuna di noi e ce li dà con un grande sorriso: non siamo entrati ma ha potuto ugualmente offrirci qualcosa!

Anche questa è bellezza, come lo sono i visi e le risate dei bambini che ci hanno seguito per due ore e degli altri che ogni tanto ci seguono.

Il giro per le devastazioni non si ferma al nord, ma seguendo Shara Salaadin, la strada che unisce le due punte della striscia, lo facciamo arrivare fino a  un’altra area dove gli israeliani hanno sganciato tonnellate di bombe: Deir el Balah e Khan Younis. 

Ad Al Braish, vicino Jabalia, veniamo bloccati da una gran folla. Alcuni soldati di Hamas ci fermano e mi chiedono di non fotografare: è il funerale dei sette operai morti per il crollo di un tunnel a cui stavano lavorando. C’ è forse un migliaio di persone a rendere loro omaggio. Si tratta di un incidente   eppure i sette operai morti vengono percepiti come martiri: lavoravano per tutti. Se non ci fosse l’assedio non ci sarebbe nessun tunnel da scavare, ma fuori da qui  sono in tanti a non capirlo o a non ricordarlo, in primis i nostri media! 

Il tempo per fortuna è migliorato e percorrendo la strada per tornare verso Gaza improvvisamente il poverissimo campo di Deir el Balah si illumina della luce rossa del tramonto contro cui si stagliano le sue palme (quelle che danno il nome al luogo, infatti significa palma)  e ci riempie gli occhi di bellezza. Israele non è ancora riuscito a spegnere il sole sulla terra palestinese e uno spettacolo diverso ma altrettanto bello il sole ce lo regalerà qualche chilometro più avanti, al porto dei pescatori di Gaza.
Una giornata lunga, quella di oggi. E’ iniziata poco dopo l’alba e si è conclusa alle 10 di sera dopo un meeting di lavoro. Ma si è conclusa in bellezza: con un giro panoramico nella città e un tè alla salvia in uno dei più bei ristorantini sul mare. Quelli che non piacciono a chi vorrebbe i gazawi e i palestinesi in genere, rinchiusi nello stereotipo del poveretto o del terrorista. Quelli che una stampa balorda, filo sionista o a volte semplicemente sciocca, tende a mostrare come luoghi frequentati solo da politici corrotti, qui come a Ramallah, dimenticando che il diritto al piacere appartiene a tutti e i palestinesi riescono a farne anche motivo di resistenza.

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