Ora o mai più: perché Erdoğan vuole invadere la Siria
[carta di Laura Canali tratta da Limes 9/15 Le guerre islamiche]
Il presidente
della Turchia è pronto a un intervento militare diretto per fermare la
triplice avanzata di al-Asad, curdi e profughi. L’Arabia Saudita
è interessata ma vorrebbe il beneplacito degli Usa. Forze armate di
Ankara contro Forze armate di Mosca nella battaglia per Damasco: può
essere il preludio della terza guerra mondiale.
L’intervento militare della Russia in Siria ha avverato i principali incubi della Turchia.
A cinque mesi dall’inizio delle operazioni aeree, il presidente Vladimir Putin è infatti riuscito a porre Mosca al centro del grande gioco siriano, allestendo una vasta coalizione che nell’ultimo mese ha imposto un nuovo corso alla guerra civile.
Dopo mesi di sconfitte, il presidente siriano Bashar al-Asad
è tornato a guadagnare terreno nei confronti dei ribelli, soprattutto
ad Aleppo. Grazie al sostegno di Iran (da terra) e Russia (dall’aria),
Asad e le milizie curde hanno inoltre reciso il corridoio che legava la Turchia alle aree di Aleppo controllate dall’opposizione.
Sempre grazie al sostegno aereo di Mosca,
il Pkk siriano scorrazza ormai liberamente a Ovest dell’Eufrate. Viste
da Ankara, queste dinamiche delineano uno scenario catastrofico: ribelli
in ritirata, Asad nuovamente sovrano ad Aleppo e nelle aree sunnite,
curdi detentori di una regione autonoma che si estende dall’Iraq al
Mediterraneo.
Tutto ciò ha riportato all’ordine del giorno l’eventualità che la Turchia entri direttamente nella guerra siriana con un intervento di terra. Non è la prima volta che se ne parla. Stavolta, però, la prospettiva sembra essere diversa. Così come diverse sono le condizioni sul terreno.
Ankara sembra aver trovato un alleato disposto a condividere obiettivi, rischi e sacrifici di un intervento di terra in Siria. L’11 febbraio
il sottosegretario alla Difesa saudita Ahmed Asiri ha annunciato che
Riyad potrebbe realizzare operazioni di terra nel paese tra marzo e
aprile.
Il giorno dopo, il ministro degli Esteri del Regno Adel al-Jubeir ha messo in chiaro che Assad deve essere rimosso. Se necessario, con la forza. Il 13 febbraio, il suo omologo turco Mevlüt Çavuşoğlu ha dichiarato che
Ankara e Riyad hanno raggiunto un accordo per il dispiegamento di aerei
da guerra sauditi nella base di İncirlik. Insomma, i sauditi sembrano
ancora più determinati dei turchi.
L’intervento turco-saudita in Siria, come ha detto chiaramente al-Jubeir e ammettono anche i dirigenti turchi, è però legato a una condizione: il beneplacito Usa. Che è tutt’altro che scontato.
Per gli Stati Uniti la situazione in Siria non potrebbe essere migliore.
Mentre alleati, cosiddetti alleati, rivali e presunti rivali si
scannano in un teatro secondario sprecando risorse economiche, militari e
geopolitiche, Washington è infatti libera di far slittare il suo asse
geopolitico verso l’Asia che conta senza correre il rischio che nella
palude mediorientale emerga una potenza regionale in grado di sfidare la
sua egemonia. Le probabilità che gli Stati Uniti appoggino l’eventuale
intervento turco-saudita in Siria sono dunque pari a zero. O quasi. “Che
dovremmo fare? Entrare in guerra con la Russia?”, ha commentato laconicamente il segretario di Stato John Kerry qualche giorno fa.
L’incognita, dunque, non è se Washington appoggerà l’intervento di terra turco-saudita, ma se Ankara e Riyad entreranno nella guerra siriana anche senza la copertura americana. Difficile prevederlo.
Per Ankara, tuttavia, intervenire in Siria è diventata una questione di sopravvivenza. Per almeno tre ragioni.
La prima è che da quando la Russia e l’esercito siriano hanno intensificato
le operazioni militari nell’area di Aleppo, le ondate di profughi verso
il confine turco si sono moltiplicate. Decine di migliaia di siriani si accalcano ai posti di frontiera. Altre centinaia di migliaia potrebbero arrivare nel prossimo futuro. La Turchia, che già ospita tre milioni di rifugiati, ha da tempo raggiunto il livello di saturazione.
Erdoğan ha spesso utilizzato i rifugiati siriani come armi. Putin però sa farlo meglio di lui. Probabilmente, le notizie relative alle stragi compiute dalle bombe russe nei mercati e negli ospedali non sono interamente vere. La copertura dell’offensiva russa nel Nord della Siria da parte di giornalisti come Julian Röpcke della Bild,
tuttavia, dimostra che il terrore della popolazione civile è cresciuto
esponenzialmente. Le ondate di profughi al confine turco-siriano,
d’altra parte, sono un dato di fatto. Con questa mossa, Putin non
intende colpire solo la Turchia ma soprattutto l’asse nascente tra
Ankara e Berlino, palesato dall’appoggio di Angela Merkel alla zona di sicurezza richiesta del governo turco.
La seconda ragione riguarda i curdi siriani.
Grazie al sostegno aereo della Russia e all’alleanza stretta con il
regime di Asad, le Ypg si muovono ormai liberamente a Ovest dell’Eufrate
e a Est di Afrin. Negli ultimi giorni le milizie curde hanno preso la
città di Tel Rıfat e stretto d’assedio Azez, provocando una furiosa reazione del primo ministro turco Davutoğlu. I curdi siriani, ormai, pensano in grande. Assad, già lo scorso anno, gli ha promesso l’autonomia
in caso di riconquista della Siria. Un salto di qualità notevole per
chi fino al 2011 non gli garantiva neanche la cittadinanza. Queste
manovre militari stanno inoltre cambiando la struttura demografica del
Nord della Siria.
Quanto accaduto a Tel Abyad a giugno esemplifica chiaramente questa dinamica. In
occasione degli scontri tra le Ypg e lo Stato Islamico nella città al
confine turco-siriano, 24 mila civili sono fuggiti in Turchia: 4 mila
curdi e 20 mila arabi. I 4 mila curdi sono tornati a Tel Abyad dopo la
sua “liberazione”. I 20 mila arabi hanno preferito rimanere nei campi
profughi oltreconfine piuttosto che tornare nella città ormai governata
dal Pyd. Il Kurdistan si fa anche così. In questo contesto, è necessario
precisare che nessun governo turco, di qualsiasi orientamento politico,
in qualsiasi circostanza spazio-temporale potrebbe mai accettare che al
Pkk venga garantito il crisma della statualità.
Perché il Pkk non vuole uno Stato curdo. Vuole un proprio “stan” da governare con metodi
che non riflettono esattamente l’ideale di libertà per il quale secondo
i media occidentali combattono i rivoluzionari curdi. L’obiettivo di
Erdoğan, peraltro, non è solo prevenire la nascita di un “Pkkstan” nel
Nord della Siria, ma creare le condizioni per la ripresa del processo di
pace, congelato dal presidente in primavera per due ragioni: l’ascesa
elettorale dell’Hdp e il rafforzamento regionale del Pkk. Il primo
problema è stato risolto. Dopo le elezioni del 7 giugno il bluff di
Demirtaş è stato smascherato e il co-segretario dell’Hdp è tornato a
fare ciò che più gli si addice: il faccendiere del
Pkk. Per superare il secondo ostacolo alla ripresa dei negoziati,
Erdoğan deve sconfiggere il Pkk in Siria, ormai il fronte principale
della guerra all’organizzazione curda. Attaccare il Pkk in Siria, come
la Turchia sta facendo dal 13 febbraio, senza prima chiudere il fronte interno è tuttavia molto rischioso. Nonostante le dichiarazioni ottimistiche del
ministro dell’Interno Efkan Ala, le operazioni militari nel sud-est
della Turchia non hanno ancora prodotto i risultati sperati. Anzi. In
primavera il Pkk potrebbe lanciare un’offensiva in grande stile che coinvolgerebbe anche la Turchia occidentale.
Su questo fronte, inoltre, aspettarsi l’appoggio degli Usa è quantomeno illusorio. Washington ha ribadito ad nauseam che non considera il
Pyd un’organizzazione terroristica. Un cortocircuito logico piuttosto
curioso, considerando che i curdi siriani sono eterodiretti da Kandil,
quartier generale del Pkk in Iraq. Per dimostrarlo basta considerare che
le armi fornite alle Ypg (anche dagli americani) vengono trasferite in Turchia attraverso tunnel scavati tra la città siriana di Qamishli e la città turca di Nusaybin.
La terza ragione, infine, è legata a quanto sta accadendo ad Aleppo,
vero centro di gravità della Siria e reale posta in gioco della guerra
mondiale in corso nel paese. L’avanzata della coalizione russo-sciita ha reciso il
corridoio che connetteva la Turchia alle aree di Aleppo controllate dai
ribelli sostenuti da Ankara, indebolendo enormemente la possibilità di
questi ultimi di fronteggiare l’offensiva di Putin e al-Asad. Dalla
prospettiva turca, la caduta di Aleppo si tradurrebbe in un collasso
della sua influenza nella regione delimitata dalla linea Mosul-Homs, il
cuore della profondità strategica neo-ottomana. Alla luce della situazione sul terreno,
è del tutto evidente che Erdoğan può difficilmente prevenire questa
catastrofe geopolitica attraverso gli attori di prossimità che a lui
fanno riferimento. Il mood prevalente nei circoli governativi è: ora o mai più.
Se dipendesse esclusivamente dal “sultano”,
i Mehmetçik sarebbero in Siria già da un pezzo. Con o senza gli
americani. Se i soldati turchi non hanno ancora varcato il confine, è
perché fino ad oggi i generali sono stati in grado di frenare gli ardori bellici del presidente. Alla luce dei rapporti di forza interni, però, il potere di interdizione dei paşa potrebbe esaurirsi presto.
Inoltre, è bene tenere a mente che i parametri razionali
(assenza di una risoluzione Onu e dell’appoggio americano, rischio di
un confronto diretto con Russia e Iran) non possono costituire la base
per prevedere le azioni di Erdoğan. Se il 24 novembre mattina qualcuno
avesse affermato che la Turchia avrebbe abbattuto un Su-24 russo sarebbe stato come minimo internato. Forse è anche alla luce della fortissima componente antropologica dell’attuale geopolitica turca che un giornalista navigato e generalmente molto misurato come Murat Yetkin si sia sentito di affermare a chiare lettere che “la Turchia è sulla soglia della guerra”.
L’attentato del 17 febbraio ad Ankara aumenta le possibilità che questa soglia venga superata. L’attentatore è infatti un rifugiato siriano membro delle Ypg, come ha confermato Davutoğlu. Uno dei leader del Pkk, Cemil Bayık, ha parlato di
“possibile ritorsione” contro la politica dell’Akp nella regione curda,
non rivendicando l’attentato ma tradendo una certa soddisfazione per
l’accaduto. Questo evento avrà l’effetto di rafforzare la determinazione
con la quale la Turchia continuerà a colpire le posizioni dei
terroristi curdi nel Nord della Siria. Non solo. L’attentato di Ankara
potrebbe far crollare le residue resistenze dei militari, obiettivi
dell’attacco, e convincerli del fatto che il fronte della guerra al
terrore va allargato alla Siria. Mettendo gli stivali sul terreno.
Inoltre, la strage di Ankara rende sempre più insostenibile la posizione
degli americani. A meno di non voler allargare ulteriormente la crepa
nelle relazioni con la Turchia, Washington non potrà continuare a
sostenere un’organizzazione terroristica che realizza attentati nella
capitale di un suo alleato. Se la soglia di cui parla Yetkin venisse
oltrepassata, le conseguenze geopolitiche sarebbero a dir poco
clamorose.
L’intervento militare turco in Siria rischierebbe di produrre il maggior conflitto turco-iraniano dal 1639. Ankara e Teheran sembrano due pugili che si studiano in attesa di affondare il colpo. Nel 2015, l’interscambio
tra i due paesi è crollato. Una dinamica che non può essere spiegata
unicamente con il crescere della rivalità regionale. Il commercio
bilaterale turco-israeliano, ad esempio, è aumentato costantemente dopo
la crisi della Mavi Marmara. Il presidente del Comitato Affari esteri della Duma Konstantin Kosachev ha affermato senza mezzi termini che “se la Turchia entra in Siria, dovrà vedersela con l’Iran. E, peggio ancora, con la Russia”.
La paura di un confronto militare turco-russo,
che metterebbe la Nato in una posizione delicatissima, è uno spettro
che attanaglia il mondo forse ancor più di quanto a suo tempo faceva
quello evocato da Marx nell’incipit del Manifesto. Come dimostra la crisi turco-irachena seguita all’incidente di Bashika, infatti, tale confronto non sarebbe limitato alla Siria.
Mosca potrebbe dare vita a una vera e propria guerra asimmetrica contro Ankara. C’è ad esempio chi ritiene che
la Russia potrebbe indurre l’Armenia ad attaccare l’Azerbaigian per
trascinare la Turchia, alleata di Baku, in un conflitto caldo nel
Caucaso. D’altra parte, c’è chi ipotizza che per indebolire la posizione
russa in Siria i turchi potrebbero creare un diversivo in Ucraina, paese dal quale Davutoğlu ha recentemente attaccato Mosca con toni che non hanno precedenti.
L’intervento militare turco in Siria potrebbe dunque essere il preludio dell’Armageddon. Di quella terza guerra mondiale evocata ultimamente dal primo ministro russo Medvedev.
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