Moni Ovadia: la mia famiglia ebrea salvata dal popolo bulgaro

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Moni Ovadia (Pagina Ufficiale) 
 
"Sapevo fin da piccolo cosa volesse dire essere ebreo. Avevo visto la stella gialla galleggiare in una scatola di bottoni di mia madre e su un suo vecchio cappotto si notava ancora il segno più scuro dove era stata cucita la stella.
(…) Eravamo stati risparmiati. Eravamo bulgari. Gli ebrei bulgari sono stati salvati dal popolo in mezzo al quale vivevano, come gli ebrei danesi. Siamo stati salvati dal popolo bulgaro e abbiamo pagato questa salvezza con un senso di colpa incurabile.
(…) Sono venuto via dalla Bulgaria che avevo tre anni. Nella formazione del mio inconscio c’è stata una lingua che non è l’italiano, ma il bulgaro, un’altra lingua che è il giudaico sefardita, un’altra lingua che è il turco, perché i miei a volte parlavano
anche in turco per non farsi capire dai bambini. Pertanto i suoni delle mie emozioni, del costituirsi del mio animus , anche della formazione dei miei sentimenti, risentono
di questa realtà. E poi c’è quel viaggio fondante verso l’Italia. Io non me lo ricordo, ma so che è stato un lungo viaggio in treno con tutti i bagagli, i mobili, e questo ha sempre acceso la mia fantasia. Soprattutto quando, da grande, si è sviluppato in me un naturale amore verso questa mia gente sradicata e vessata.
(…) Io ero nato il 16 aprile del ’46, nella città di Plovdiv (Filippopoli). L’Europa era ancora piena di macerie. L’Italia delle macerie me la ricordo in modo molto vivido. Ho giocato fra le macerie. (…)
E dunque siamo sbarcati a Milano e siamo andati a stare in una pensioncina da film di Totò. In quattro in una stanza: mio padre Simantòv, mia madre Vittoria, mio fratello Samuele detto Sami, di pochi anni più grande di me, e io, Salomone detto Moni.
Era la pensione Branca, in via Ariosto. Un luogo di disgraziati, però allegro, pieno di gente che parlava varie lingue. Lì feci, piccolissimo, il mio primo pezzo di teatro.
Avevamo un fornelletto elettrico clandestino, come tutti, e la luce saltava continuamente. Allora la proprietaria della pensione usciva sulle scale insultando questi profughi
sbandati: «Stupidi, cretini, vigliacchi» gridava.
La parola “vigliacchi” soprattutto mi colpiva. Così, una volta saltò la luce e uscii fuori io con la mia vocetta, i miei capelli da paggetto e mi misi a strillare: «Vigliacchi, cretini, vigliacchi.»
Tutti si affacciarono alle varie porte ridendo fragorosamente.
Fu un vero trionfo, il primo: teatrale e politico"
(da "Speriamo che tenga, viaggio di un saltimbanco tra cielo e terra", Mondadori)

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