Davide Frattini : Gaza al buio e al freddo. Il gas di Gaza


1999

L'Autorità palestinese accorda una concessione di 25 anni per l'esplorazione al largo della costa di Gaza al gruppo britannico BG

2000

A 850 metri di profondità nel Mediterraneo viene scoperto il giacimento Gaza Marine. Poco dopo scoppia la seconda Intifada

2001

La società americana Noble Energy e l'israeliana Delek (partner nel consorzio Yam Thetis, che vuole sfruttare i giacimenti scoperti al largo di Israele) portano il gruppo BG in tribunale contestando la concessione

2004

BG annuncia di voler cominciare i negoziati con l'Egitto per trovare acquirenti per il gas che verrà estratto del giacimento

2007



Alla fine della primavera, i vari gruppi coinvolti nelle trattative sono vicini a un accordo: il gas estratto da BG verrà trasportato da una gasdotto sottomarino al porto israeliano di Ashkelon e da lì distribuito anche verso la Striscia di Gaza e la Cisgiordania
Con un colpo militare il movimento fondamentalista Hamas toglie il controllo di Gaza al presidente palestinese Abu Mazen: gli israeliani e lo stesso Abu Mazen adesso temono che i profitti dalla vendita del gas finiscano ad Hamas
Preoccupato dalla violenza nella Striscia e dalla lentezza dei negoziati con il governo israeliano, il gruppo BG interrompe le trattative

2008

Bg chiude i suoi uffici in Israele, ma secondo il bilancio presentato continua a possedere il 90 per cento del giacimento

2011



Come rappresentate del Quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione Europea, Nazioni Unite) Tony Blair cerca di far ripartire il progetto per lo sfruttamento di Gaza Marine

2012

BG vuole vendere la sua partecipazione

2013



Il governo israeliano appoggia lo sviluppo del giacimento come parte di un piano da 4 miliardi di dollari di John Kerry, segretario di Stato americano, per sostenere l'economia palestinese

2020

Nel 2014 la Striscia di Gaza ha consumato 210 megawatt di elettricità, ma la domanda reale sarebbe stata del doppio. Nel 2020 questa necessità non soddisfatta salirà a 855 megawatt



La Striscia vive in una costante crisi energetica, tra lotte interne palestinesi e l'embargo imposto dagli israeliani. Eppure sedici anni fa a trenta chilometri dalla costa è stato scoperto un giacimento di gas naturale che Yasser Arafat proclamò «un dono di Allah» (del valore di 4 miliardi di dollari). Non è mai stato sfruttato: adesso il Qatar prova a rilanciare il progetto.
GAZA – La «Dolphin I» sta spiaggiata sulla sabbia grigia del porto di Gaza, arenata come le speranze dei palestinesi di arricchirsi con quel tesoro a ottocentocinquanta metri di profondità nel Mediterraneo. Sedici anni fa Yasser Arafat è salito su questa nave, superando il mal di mare e rischiando di perdere la keffiah nel vento, per accendere la fiaccola con il primo combustile portato in superficie dai test. Là sotto – sostengono gli ingegneri britannici del gruppo BG che aveva vinto la concessione dai palestinesi per sfruttare Gaza Marine – ci sono 32 miliardi di metri cubi in gas naturale, valore stimato quattro miliardi di dollari. «È un dono di Allah al nostro popolo. Fornirà le fondamenta per la nascita di uno Stato», proclama Arafat. Poche settimane dopo scoppia la seconda Intifada e a prosperare è solo la violenza.  
Mohammed Jaja mostra le bombole arrugginite, sono vuote come le stanze di questa casa buia anche quando c’è il sole, campo rifugiati di Shati – la Spiaggia – un nome che in inverno porta lo sfavore del vento gelido dal mare.  Sono due mesi che aspetta di poterne riempire almeno quattro, ha pagato in anticipo i 35 shekel (8 euro) a bombola, un patrimonio a Gaza dove il 40 per cento della popolazione sopravvive sotto la soglia di povertà, quegli 1,90 dollari al giorno fissati dalla Banca Mondiale per contabilizzare la miseria. Mohammed faceva l’imbianchino, è disoccupato (come il 43,9 per cento degli abitanti), in famiglia sono in nove. «Tiriamo avanti con questo fornello a kerosene: lo usiamo per cucinare, per provare a scaldarci, per bollire l’acqua e lavarci». Il gas da cucina manca ad Ahmed e a tutta la Striscia, non ne arriva abbastanza, quel poco viene usato anche per far marciare le auto, di benzina e gasolio ce ne sono ancora meno. inché è stato inviato del Quartetto, Blair ha spinto il gruppo BG a negoziare con i governi israeliani e il presidente Abu Mazen per far partire il progetto, un gasdotto avrebbe trasportato il combustibile alle raffinerie del porto di Ashkelon e da lì sarebbe stato distribuito ai palestinesi e venduto allo Stato ebraico. In mezzo ci sono state un paio di guerre con Israele che hanno fermato le trattative e in ogni caso Hamas si è opposta: «Sarebbe un furto, una moderna dichiarazione Balfour che svende una risorsa nazionale all’occupante» ha attaccato Ziad Zaza, tra gli economisti del movimento. E’ una risorsa palestinese, da quando gli accordi di Oslo che i fondamentalisti non riconoscono l’hanno garantita a Yasser Arafat e all’Autorità di Ramallah, intesa confermata da Ehud Barak nel 1999.Adesso che le pressioni vengono dal Qatar e che la crisi energetica di Gaza diventa sempre più grave, i leader di Hamas potrebbero cambiare idea. Mohammed al-Hamadi, ambasciatore dell’emirato e incaricato della ricostruzione nella Striscia, ha rilanciato l’idea di una condotta che rifornisca la centrale elettrica per ora con il gas trovato dagli israeliani al largo delle loro coste, sempre nel bacino del Levante. L’obiettivo per il futuro è cominciare l’estrazione da Gaza Marine – secondo gli esperti ci vorrebbero 30 mesi – e le eccedenze sarebbero vendute: tra i compratori ci sarebbe già la Giordania. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, chiede in cambio assicurazioni che i profitti siano gestiti da Abu Mazen e non finiscano ad Hamas. «Altrimenti servono solo a pagare la prossima guerra contro di noi».Anche nell’ufficio di Ahmed Abu Ala Alamrain, che pure lavora all’altisonante Autorità per l’Energia e le Risorse naturali, l’elettricità va e viene. L’unica centrale di Gaza riesce a funzionare a metà del potenziale e comunque a pieno regime potrebbe coprire solo il 22 per cento delle esigenze, il resto viene fornito da Israele (26 per cento) e dall’Egitto (6 per cento): totale 43 per cento. Quel che manca significa sei-sette ore di elettricità al giorno per 1,8 milioni di persone. O lasciando da parte i numeri: vivere al buio, al freddo d’inverno e al caldo asfissiante d’estate. «La centrale funziona a gasolio – spiega Alamrain – e per i rifornimenti dipendiamo da Israele, che ci schiaccia con l’embargo, e dall’Autorità palestinese: a Ramallah sborsiamo una tassa sul combustibile, negli ultimi sei mesi era stata abolita, adesso vogliono il 20 per cento del valore. Non tengono conto di quel che già abbiamo pagato per il gasolio non ancora ricevuto».
Altri dirigenti sono più espliciti: «La centrale è una calamità per Gaza, se non fosse stata costruita potremmo importare l’elettricità direttamente dalla rete israeliana e ci costerebbe meno». Perché il governo palestinese e il presidente Abu Mazen – accusano dalla Striscia – sfruttano l’impianto (che nei 59 giorni di guerra dell’estate 2014 è stato bombardato dagli israeliani) e la distribuzione di gasolio come mezzi di pressione politica su Hamas, il movimento fondamentalista che nel 2007 ha tolto il controllo di Gaza ad Abu Mazen con un colpo militare. Da Ramallah replicano che Hamas non consegna i soldi raccolti con le bollette (in realtà l’80 per cento delle famiglie non paga).
La soluzione starebbe a meno di trenta chilometri al largo. Già Tony Blair, quando era inviato del Quartetto, progettava di far passare la sua «road map» sotto il Mediterraneo. L’ex premier britannico resta convinto che i guadagni prodotti dal giacimento di gas naturale Gaza Marine possano rilanciare l’economia palestinese e il processo di pace. E’ quello che scrive anche il Parlamento europeo in un dossier dell’aprile 2014: «Lo sfruttamento del bacino rappresenterebbe un vantaggio per entrambi. I palestinesi potrebbero finalmente ridurre la dipendenza dagli aiuti internazionali, gli israeliani forniscono l’energia per Gaza e la Cisgiordania ma i pagamenti non sono regolari».
Finché è stato inviato del Quartetto, Blair ha spinto il gruppo BG a negoziare con i governi israeliani e il presidente Abu Mazen per far partire il progetto, un gasdotto avrebbe trasportato il combustibile alle raffinerie del porto di Ashkelon e da lì sarebbe stato distribuito ai palestinesi e venduto allo Stato ebraico. In mezzo ci sono state un paio di guerre con Israele che hanno fermato le trattative e in ogni caso Hamas si è opposta: «Sarebbe un furto, una moderna dichiarazione Balfour che svende una risorsa nazionale all’occupante» ha attaccato Ziad Zaza, tra gli economisti del movimento. E’ una risorsa palestinese, da quando gli accordi di Oslo che i fondamentalisti non riconoscono l’hanno garantita a Yasser Arafat e all’Autorità di Ramallah, intesa confermata da Ehud Barak nel 1999.
Adesso che le pressioni vengono dal Qatar e che la crisi energetica di Gaza diventa sempre più grave, i leader di Hamas potrebbero cambiare idea. Mohammed al-Hamadi, ambasciatore dell’emirato e incaricato della ricostruzione nella Striscia, ha rilanciato l’idea di una condotta che rifornisca la centrale elettrica per ora con il gas trovato dagli israeliani al largo delle loro coste, sempre nel bacino del Levante. L’obiettivo per il futuro è cominciare l’estrazione da Gaza Marine – secondo gli esperti ci vorrebbero 30 mesi – e le eccedenze sarebbero vendute: tra i compratori ci sarebbe già la Giordania. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, chiede in cambio assicurazioni che i profitti siano gestiti da Abu Mazen e non finiscano ad Hamas. «Altrimenti servono solo a pagare la prossima guerra contro di noi».



Un tesoro (di gas naturale) resta sommerso nel Mediterraneo
corriere.it|Di Davide Frattini

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