Tuwani(R)Esiste : Urla mute per orecchie sorde




I volontari di Operazione Colomba hanno accompagnato gli attivisti di Bt’Selem nelle visite ad alcune famiglie di ragazzi uccisi dall’esercito israeliano negli ultimi mesi nella zona di Hebron, in seguito a tentativi di aggressione. Le vittime hanno tentato…
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I volontari di Operazione Colomba hanno accompagnato gli attivisti di Bt’Selem nelle visite ad alcune famiglie di ragazzi uccisi dall’esercito israeliano negli ultimi mesi nella zona di Hebron, in seguito a tentativi di aggressione. Le vittime hanno tentato di aggredire soldati o coloni israeliani con coltelli da cucina o, in altri casi, investendoli in macchina. I palestinesi sono stati freddati sul luogo, diventando così dei “martiri”.
In questi casi è prassi dell’esercito israeliano punire anche le famiglie degli aggressori demolendo le loro abitazioni. Queste azioni rientrano in un sistema di punizioni collettive che le forze occupanti israeliane mettono in atto sistematicamente nei Territori Palestinesi.

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Nessuno dei genitori sapeva cosa stava andando a fare quella mattina quel loro figlio. C’è chi ha detto “vado a lavoro”, c’è chi non ha detto nulla ed è uscito, qualche ora dopo la notizia: “vostro figlio è diventato shahid (martire e testimone)”.
C’è poco spazio per il dolore pubblico: “è morto per la Palestina, meglio così che in mille altri modi”.
Ma basta stare insieme pochi minuti per sentirsi dire “amo la Palestina, ma amavo ancora di più mio figlio”.
Mentre visitiamo le famiglie di questi giovani ragazzi, ci chiediamo perché sono diventatishahid, perché hanno scelto di morire così. Alcune risposte arrivano dai racconti dei familiari, pezzi di risposte, i motivi che forse li hanno spinti a correre verso un soldato con un coltello da cucina in mano, o a schiantarsi contro un checkpoint con la macchina…
Permessi di lavoro tolti, futuro negato, paura, frustrazione.
Qualsiasi strada hanno provato se la sono trovata sbarrata.
E all’orizzonte anche tutte le altre strade sembrano già chiuse… sembra che solo una ne rimanga aperta, quella più estrema, per permettere loro di essere ascoltati, di far uscire fuori quell’urlo che non può uscire da nessuna altra parte.
Qualche settimana dopo la notizia della morte, le famiglie degli shahid vengono svegliate dall’esercito, di solito in piena notte, a volte da decine di soldati che fanno irruzione in casa, non dicono quasi nulla, ma prendono le misure di tutto l’edificio.
Da quel momento in poi gli abitanti della casa sanno che, oltre a sopportare il dolore della perdita, a breve vedranno la loro casa esplodere.
Spesso case dove vivono famiglie enormi, nonne, nipoti, fratelli.
Al piano terra stalle e animali.
Una casa costruita attraverso le generazioni, un rifugio per tutta la famiglia.
Altre volte sono solo un paio di stanzette quasi vuote, arredate con la foto del figlio ormai “martire”, dove sta la madre anziana e sola, senza neanche più quell’unico figlio non ancora sposato.
La giustizia di Israele prende molto seriamente queste situazioni ed esegue punizioni collettive: chi ha perso un figlio o un fratello o un marito, deve essere ancora punito…
“Quando finirà?” ci chiedono, “Ha una fine tutto questo?”.
Io non so più se ce l’ha, per chi è nato dalla parte sbagliata di un muro, o nella costa sbagliata di un mare, o al di là di una frontiera.
Non so se ce l’ha finché noi, quelli nati dalla parte ricca, dalla parte che detta le regole, continuiamo a pretendere una giustizia che è solo per noi, dei diritti che sono privilegi, una sicurezza che è una fortezza armata.
Forse ci sarà una fine quando tutti smetteremo di girarci dall’altra parte, e fare finta che queste storie non ci riguardino.
M.

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