Il calcolo strategico saudita nell’esecuzione di Nimr Al-Nimr


 
 
 
 
 
 
I primi giorni del 2016 hanno segnato dei cambiamenti fondamentali nella delicata “nuova guerra fredda mediorientale”, espressione spesso usata per…
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Con l’esecuzione dell’imam sciita Riyad cerca di compattare il fronte interno e mandare a monte la “riabilitazione” di Teheran. Con un occhio preoccupato agli scontenti che si annidano nella famiglia reale.
I primi giorni del 2016 hanno segnato dei cambiamenti fondamentali nella delicata “nuova guerra fredda mediorientale”, espressione spesso usata per indicare la lotta per la supremazia regionale tra Iran e Arabia Saudita.

Il 2 gennaio l’Arabia Saudita eseguiva la condanna a morte di 47 prigionieri condannati per terrorismo. Tra questi alcuni militanti di Al Qa’ida, ma anche dissidenti che si erano resi protagonisti delle proteste di piazza avvenute nel 2011 nella provincia orientale dell’Arabia Saudita (Sharqiyya) a maggioranza sciita – e soprattutto, lo sheikh sciita Nimr Baqr al-Nimr, leader morale delle proteste.

Figura fortemente simbolica per gli sciiti dell’Arabia Saudita, profondamente stimato anche nella comunità sciita internazionale, alla sua morte Nimr è stato proclamato shahid (martire) dalla Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, che ha anche invocato la “vendetta divina” sui suoi esecutori. Queste dichiarazioni hanno alimentato lo sdegno dell’opinione pubblica regionale sciita verso l’Arabia Saudita, sopratutto in Iran, dove migliaia di manifestanti hanno assaltato le sedi diplomatiche saudite di Teheran e Mashad.

Proprio la violazione delle sedi diplomatiche ha spinto il ministro degli Esteri saudita Adel Jubayr a dichiarare la rottura completa dei rapporti diplomatici e commerciali tra Riyad e Teheran. La mossa è stata replicata da Bahrein e Sudan, mentre gli Emirati Arabi Uniti hanno declassato le relazioni a livello chargé d’affaires. Qatar e Kuwait hanno richiamato i propri ambasciatori da Teheran.

A nulla è valso un tiepido tentativo da parte del presidente iraniano Hassan Rouhani e del ministro degli Esteri Javad Zarif che, pur avendo condannato l’Arabia Saudita per l’esecuzione, hanno denunciato le violenze contro le sedi diplomatiche saudite e garantito che assicureranno i responsabili alla giustizia.

La rottura dei rapporti diplomatici allontana in modo preoccupante le prospettive di una soluzione diplomatica dei conflitti regionali, soprattutto in Siria, come dimostrato dall’immediata partenza dell’inviato Onu per la Siria Staffan de Mistura verso Riyad e Teheran.

La posizione saudita nel dossier siriano, già sfavorevole, peggiorerebbe se Riyad venisse percepita come un ostacolo alla risoluzione del più sanguinoso e devastante conflitto degli ultimi anni. In Yemen e Iraq invece, la rottura galvanizza le fazioni sciite o simpatizzanti tali. Gli houthi yemeniti combattono direttamente contro i sauditi, già duramente messi alla prova dall’incapacità di vincere il conflitto; gli sciiti iracheni oppongono politicamente, e lo faranno con sempre maggiore fermezza, qualsiasi riavvicinamento tra Riyad e Baghdad, capitale chiave del mondo arabo-islamico, dove per i sauditi riguadagnare l’influenza persa negli ultimi anni sarebbe strategico.

Non solo: l’esecuzione di al-Nimr ha scatenato una significativa ondata di condanna da parte di governi, media e opinioni pubbliche occidentali e organizzazioni internazionali che ripudiano la pena di morte e gli omicidi politici – tra cui notoriamente Human Rights Watch, che già dal 2013 si era occupata del caso Nimr.

Questa valanga di pubblicità negativa giunge tra l’altro proprio nel periodo di presidenza dell’Arabia Saudita del Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Infine, l’esecuzione ha inevitabilmente acuito il settarismo nella regione, scatenando proteste anti-saudite tra le comunità sciite in tutto il mondo: in Pakistan, Turchia, Libano, Iraq, in Europa, ma soprattutto in Bahrein. Proteste che non sono rimaste oltre confine: nella provincia di Sharqiyya da giorni echeggia il grido “morte ai Saud”.

Il rischio è che i disordini degenerino in instabilità, sulla scia di quanto successo nel 2011. La conseguente repressione potrebbe alimentare una lenta ma incrementale reazione in una comunità da sempre marginalizzata e accusata di essere una quinta colonna dell’Iran. Una comunità che è stata vittima negli ultimi tempi degli attacchi dello Stato Islamico, che per alcuni è legato alla leadership saudita.

Quest’analisi dei probabili sviluppi dell’affaire Nimr spinge a chiedersi quale calcolo strategico abbia spinto i sauditi a portare a termine l’esecuzione, considerando che sheykh di paragonabile levatura accusati di sedizione vengono di frequente imprigionati ma raramente giustiziati.

Ci sono fondati dubbi sulla piena consapevolezza nella leadership saudita della magnitudo delle ripercussioni dell’esecuzione. L’attuale leadership ha già dimostrato di perseguire una politica personalistica, di breve termine ed erratica. Si possono comunque avanzare tre distinte ipotesi, di livello internazionale, bilaterale e nazionale.

A livello internazionale, l’escalation con l’Iran allontana la prospettiva di un détente regionale e spinge alleati vicini e lontani a schierarsi, nella convinzione che le profonde partnership economiche, finanziarie e strategiche che Riyad ha costruito in questi anni abbiano la meglio sui prospetti offerti da una futura partnership con Teheran.

Dopo aver inutilmente tentato di scoraggiare l’accordo sul nucleare con l’Iran facendo pressioni su Washington, e in un momento di grande sfiducia verso l’alleato Usa che semplicemente non condivide alcun obiettivo strategico con Riyad, la casa regnante saudita ha intentato un colpo di mano per scongiurare la costruzione di un assetto geopolitico regionale basato su un equilibrio di potere saudita-iraniano.

L’intento sarebbe alimentare l’idea che in fondo l’Iran rimane uno Stato-canaglia, pronto a sfruttare il momento propizio per estendere la propria egemonia regionale. Secondo la narrazione saudita, il campo riformista rappresentato da Rohani e Zarif non detiene la reale autorità sulla politica regionale, che sarebbe competenza esclusiva della Guardia Rivoluzionaria dei pasdaran.

Dunque, sostengono i sauditi, la politica regionale è disegnata da generali senza scrupoli e con aspirazioni predatorie come Qassim Sulaimani, capo delle Niru-ye Qods’, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica. Rohani e Zarif rappresenterebbero l’aspetto gentile del regime, un mero diversivo.

A livello bilaterale, l’insistenza su questa narrazione e le azioni intraprese negli ultimi tempi da Riyad rafforzano la componente più radicale della politica interna iraniana. All’indomani dell’esecuzione, diversi tra i religiosi iraniani, incluso la Guida Suprema Khamenei, dichiaravano che l’Arabia Saudita aveva compiuto un’azione non molto diversa da quelle compiute dallo Stato Islamico. Diversi generali di alto rango della Guardia Rivoluzionaria hanno lanciato la stessa accusa, ammonendo inoltre Rohani, che aveva a lungo supportato un riavvicinamento con Riyad. A questo punto, i sostenitori della linea dura contro la monarchia sunnita avranno campo libero in Iran a livello politico e mediatico.

Parallelamente crescerà il sentimento anti-iraniano in Arabia Saudita. Un sentimento già molto forte e probabilmente il vero motore dell’escalation di inizio anno. In effetti le azioni saudite sembrano particolarmente significative al livello domestico. Impantanata in una tempesta perfetta, alimentata da costose esperienze strategiche fallimentari in Yemen e Siria, dal crollo dei prezzi del petrolio del 54% dal novembre 2014 e da un deficit mai toccato prima, la leadership saudita si è ritrovata intrappolata nel vortice che ha investito la regione mediorientale.

La politica del Regno dopo il 2011 non è che una diretta conseguenza del senso di impotenza di fronte ai grandi cambiamenti in atto nel vicinato e di grande insicurezza rispetto a un possibile effetto domino a livello domestico. La leadership ha proiettato la propria vulnerabilità sulla popolazione, impegnandosi in un’ intensa campagna mediatica volta a convincere i cittadini che l’unità e la sicurezza del Regno sono sotto attacco esterno, con la collaborazione del “terrorismo” domestico sciita.

La politica decisionista degli ultimi anni è un pilastro di questa narrazione, in quanto dimostra che Riyad è pronta a fronteggiare le suddette minacce, annichilendole e imponendo ai propri sudditi la quiescenza. In un momento storico in cui le divisioni sociali interne si sono intensificate, un obiettivo che può accomunare tutti è l’aspirazione a prevalere sull’Iran.

Nel breve termine la retorica anti-sciita e anti-iraniana potrebbe infatti unificare le forze centripete sunnite saudite attorno a una causa nazionalistica e religiosa comune: contrastare i tentativi predatori degli eretici sciiti “Majus” (termine peggiorativo per indicare i persiani).

Un obiettivo dichiarato per re Salman e per il suo giovane figlio, il ministro della Difesa Mohammed bin Salman, primo rappresentante della terza generazione di Saud assurto a una carica ufficiale e oggetto di una latente ostilità da parte di un ramo della famiglia reale allargata, espressa in due lettere indirizzate a settembre ai rappresentanti della stessa famiglia da parte di uno dei nipoti del capostipite Abdulaziz Ibn Saud.

Le due lettere invocavano con forza un cambio nella leadership di Riyad – un fatto senza precedenti – e accusavano il viceprincipe ereditario Mohammad bin Salman di inettitudine e di traghettare Regno verso la catastrofe. La leadership saudita non è quindi solidissima; ciò potrebbe averla spinto a compiacere, con le esecuzioni del 2 gennaio, la cerchia dei loro più stretti sostenitori, gli ulema wahhabiti più integralisti del Nejd.

Infatti il re, il viceprincipe ereditario e il ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef, che ha firmato l’ordine di esecuzione, appartengono al clan dei Sudairi, originario del Nejd, il nucleo più centrale dell’Arabia Saudita e la culla del pensiero e della pratica wahhabita: uno tra i clan tra i più autenticamente nazionalisti e intrinsecamente anti-iraniani della grande famiglia dei Saud.

Una dimostrazione di debolezza nei confronti di Teheran avrebbe conseguenze catastrofiche non solo sulla credibilità personale della nuova leadership, ma probabilmente anche sull’equilibrio di tutto il sistema paese: farebbe tornare in superficie le altre questioni socio-politiche e socio-economiche irrisolte e messe in ombra dalla battaglia contro l’Iran e le altre minacce esterne.

Per quanto sia fondamentale per un governo autoritario in un periodo di incertezza rafforzare la propria base di supporto e reprimere il dissenso, i rischi rimangono notevoli. A livello internazionale, politiche assertive e antagonistiche potrebbero aggravare l’isolamento del Regno a livello internazionale. Sebbene questa opzione possa sembrare accettabile a un’elite che vede il proprio paese come un unicum a livello globale, dall’esterno risulta evidente che l’Arabia Saudita avrebbe bisogno semmai di fare degli sforzi per rinforzare il proprio network di relazioni internazionali.

Il supporto esterno potrebbe essere vitale per navigare meglio tempi così turbolenti. Internamente, perseverare con politiche dogmatiche e autoritarie potrebbe avere conseguenze destabilizzanti: le discriminazioni nei confronti delle popolazioni sciite del Regno e la criminalizzazione dei gruppi favorevoli all’espansione dei diritti civili e politici alienano chi potrebbe contribuire a un cambiamento graduale e pacifico e incoraggiano il perseguimento di un cambiamento violento.

Se la leadership abbia fatto un errore di calcolo con l’esecuzione di al-Nimr sarà chiaro nel breve termine. La posta in gioco è la sopravvivenza politica degli attuali governanti dell’Arabia Saudita.

In questa logica si iscrivono l’esecuzione dello sheykh e la rottura dei rapporti diplomatici, mentre il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Sana’a in Yemen a opera della coalizione a guida saudita, denunciato da Teheran, non è stato confermat

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