Giorgio Gomel : Haaretz, si parla di pace
Haaretz, si parla di pace
Pace, parola in disuso in Israele,
ma se ne discute a Tel Aviv mentre divampa la violenza
ma se ne discute a Tel Aviv mentre divampa la violenza
di Giorgio Gomel
Il giornale Haaretz ha organizzato
in novembre un simposio di un’intera giornata, affollato e
appassionato, sul tema della pace, a poco più di un anno dal
primo che si svolse nei giorni della guerra di Gaza (su questo
avevo riferito su Ha Keillah, nell’ottobre 2014); altri simili
avranno luogo a New York in dicembre e a Londra all’inizio del
2016.
Fra gli intervenuti, oltre al Presidente
Rivlin, Tony Blair, alcuni ministri del governo Netanyahu -
Elkin e Levin - il sindaco di Gerusalemme Barkat, esponenti
dell’opposizione - Peretz dell’Unione sionista, Galon del Meretz,
Odeh della Lista araba unita - Daniel Kahneman - psicologo e
premio Nobel per l’Economia -, Shlomo Ben Ami - ex ministro
degli esteri nelle trattative di Camp David del 2000 - , Martin
Indyk, ecc.
Pur nella varietà dei temi discussi delle
opinioni, il dibattito si è polarizzato intorno a due
direttrici: a) rifiutare la rassegnazione fatalista e impotente
allo status quo, alla retorica apocalittica di Netanyahu, che
nella sessione inaugurale della Knesset aveva affermato che “gli
israeliani sono destinati a vivere con la spada per l’eternità”,
che la pace è un miraggio, che i palestinesi e l’ISIS sono la
stessa cosa nel loro odio ossessivo per gli ebrei e l’Occidente;
b) spingere per un‘azione diplomatica di Israele, in relazione
all’iniziativa di pace araba del 2002 e al convergere di
interessi fra Israele stesso e gli stati arabi moderati nel
Medio Oriente in disgregazione, e per misure immediate sul
terreno per contenere la violenza in atto.
Rivlin ha ripetuto un concetto già
enfatizzato in altri suoi recenti interventi, la necessità,
cioè, pragmatica e insopprimibile, della coesistenza fra arabi
ed ebrei, destinati a vivere insieme. È fallito il paradigma
della sinistra israeliana, basato sull’idea della “separazione”
dei due popoli in due stati ed è parimenti fallito quello della
destra che predica l’integrità della terra di Israele sotto la
sovranità esclusiva di Israele. Ha ricordato come la condizione
degli arabi di Gerusalemme (70% sotto la soglia di povertà, il
campo profughi di Shuafat nel pieno della città) sia un naturale
detonatore di violenza. È compito urgente di Israele,
indipendentemente dallo status finale dei territori, offrire ai
palestinesi la prospettiva di un futuro di istruzione e sviluppo
economico e civile migliore, contrapposto al culto nichilista
della morte.
Secondo Blair, intervistato da Ari Shavit
circa le lezioni da trarre dal suo lavoro di coordinatore del
Quartetto fino al giugno scorso, la nascita di uno stato
palestinese accanto a Israele, con confini basati sul ‘67 e
scambi di territorio, è essenziale per il futuro stesso di
Israele e il tentativo pervicace del governo di Netanyahu di
mantenere lo status quo è destinato a fallire come la sequenza
di atti violenti e il numero di vittime degli ultimi due mesi
tristemente dimostrano. Nel frattempo tre dovrebbero essere gli
ingredienti per una ripresa di negoziati: 1) un quadro regionale
attivo in cui gli stati arabi, sulla base dell’offerta di pace
della Lega araba che contempla rapporti normali con Israele,
forniscano all’Autorità palestinese una forza politica
legittimante per stipulare un accordo di pace e un sostegno
economico adeguato (per es. integrando parte dei rifugiati del
’48 e ’67 nei paesi arabi); 2) un accordo fra Fatah e Hamas tale
da assicurare un governo unitario, credibile partner di Israele;
3) misure sul terreno che consentano ai palestinesi di costruire
abitazioni e sviluppare attività economiche nell’Area C della
Cisgiordania sotto il pieno controllo di Israele e di
ricostruire un minimo di ordine civile ed economico a Gaza
alleviando il peso dell’embargo e consentendo il movimento di
beni e persone da e verso la Striscia e lo sviluppo di piccola
imprenditoria. Gli ostacoli che si frappongono sono molteplici:
dalla legittimità dubbia degli stati arabi “moderati” - vedasi
il caso dell’Egitto o della stessa Arabia Saudita, alla
riluttanza di Hamas di abbandonare il settarismo ideologico del
“rifiuto” di Israele, alle perplessità dell’opinione pubblica di
Israele, paralizzata dalla paura e disillusa dai tentativi
abortiti di trattativa.
La posizione di Blair ha trovato concorde
anche la UE. Gentilini, il diplomatico italiano nominato mesi
orsono inviato speciale in Israele e Palestina, oltre a
difendere la decisione europea di “etichettare” i prodotti degli
insediamenti, coerente con la posizione della UE circa
l’illegalità degli stessi e la distinzione fra Israele e i
territori, ha sostenuto che solo la ripresa di negoziati
consentirà alla ANP di contenere la violenza. Anche secondo
Indyk, l’ultimo mediatore americano fra le parti, a Israele
conviene dare forza legittima all’ANP, dare modo ai palestinesi
di costruire e sviluppare produzioni nell’area C e arrestare
l’annessione strisciante in atto.
Due sono state le sessioni principali,
l’una sullo stato binazionale, l’altra sulla questione di
Gerusalemme e del Monte del Tempio. Dice Shlomo Ben Ami: il
conflitto non è più solo territoriale, ma fatto di memorie
storiche e passioni identitarie contrapposte. Lo stato
binazionale sarebbe una catastrofe per Israele, porterebbe a uno
stato perenne di guerra fra arabi ed ebrei. Non vi è soluzione
alternativa possibile a quella di due stati lungo i confini del
’67. I coloni ebrei rappresentano il 14 per cento della
popolazione in Cisgiordania e occupano il 4 per cento del
territorio di quell’area. Uno scambio paritario di territori che
comporti l’annessione ad Israele del 4-5% della Cisgiordania
potrebbe consentire all’80 % dei coloni ebrei di restare entro i
confini così definiti di Israele. Gli altri, circa 80.000,
dovranno essere evacuati e reintegrati con adeguati indennizzi
finanziari all’interno di Israele. Si noti che oggi ben il 60
per cento degli ebrei insediati in Cisgiordania lavora
quotidianamente in Israele, soprattutto nel settore pubblico.
Durissimo il linguaggio di Ahmed Tibi, deputato arabo e vice
presidente della Knesset: la realtà di fatto oggi è quella di
tre stati, la democrazia per gli ebrei, una “giudeocrazia” per
gli arabi di Israele che rappresentano un quinto della
popolazione del paese, un regime di occupazione e segregazione
per gli arabi palestinesi. La distanza fra il massimo che
Netanyahu intende offrire e il minimo accettabile da parte dei
palestinesi resta molto grande: Netanyahu non offre più di uno
stato palestinese demilitarizzato, privo di piena sovranità,
limitato ad enclaves frammentate e con la valle del Giordano
annessa a Israele; ciò non è accettabile per i palestinesi.
Circa lo status di Gerusalemme lo
spettro di opinioni espresse è stato molto ampio a riprova della
complessità estrema della questione. Rachel Lior,
dell’Università ebraica, ha deprecato l’uso politico della
religione, la mitizzazione di luoghi sacri dei testi biblici e
coranici e suggerito di separare rigidamente religione e stato e
proibire totalmente le visite e preghiere di ebrei al Monte del
Tempio, un tempo “stravaganza” di alcuni, rari zeloti, oggi
divenute qualcosa di normale, parte del dibattito pubblico nella
società. Secondo Raed Badir, capo del ramo Sud del Movimento
islamico di Israele - il cosiddetto ramo Nord, integralista, è
stato di recente dichiarato illegale dal governo di Israele -,
l’intero mondo mussulmano guarda alla Palestina come luogo
santo. Rabbi Melchior, del Foro tra ebrei e arabi in Israele,
che fu impegnato nei negoziati di Oslo e Camp David, lamenta il
fatto che le questioni di ordine religioso siano state allora
rimosse dall’agenda; la pace non può essere separata dalla
religione e uomini e donne di fede devono essere parte
integrante del processo di riconciliazione fra arabi ed ebrei.
Devono essere impedite le provocazioni di israeliani, inclusi
ministri del governo in carica, sul Monte del Tempio. Per i
palestinesi, tali provocazioni minacciano lo status quo vigente
dalla guerra del ‘67 quando Israele, estesa la sovranità sulla
parte araba della città, riconobbe la giurisdizione su quei
luoghi sacri del Wakf - l’autorità religiosa giordana -
consentendo in misura assai limitata ad israeliani di visitare
l’area.
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