DOVE COLPIRE I PERSIANI? I DILEMMI DI CASA SA‘ŪD - Limes
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Contenere l’Iran senza irritare gli Usa. Riyad risponde all’accordo nucleare in tre mosse: guerra agli ḥūṯī in Yemen, apertura ai Fratelli musulmani e asse difensivo antipersiano tra le potenze sunnite. Washington mette paletti in Siria. Intanto al-Qā‘ida prospera.
PUR
CONTINUANDO A VEDERE L’IRAN COME la minaccia numero uno alla sua
sicurezza, l’Arabia Saudita è riuscita a trovare un modus vivendi con
il paese…
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Contenere l’Iran senza irritare gli Usa. Riyad risponde all’accordo nucleare in tre mosse: guerra agli ḥūṯī in Yemen, apertura ai Fratelli musulmani e asse difensivo antipersiano tra le potenze sunnite. Washington mette paletti in Siria. Intanto al-Qā‘ida prospera.
di Andrew Hammond
PUR CONTINUANDO A VEDERE L’IRAN COME la minaccia numero uno alla sua sicurezza, l’Arabia Saudita è riuscita a trovare un modus vivendi con
il paese che ha sottoscritto il reintegro di Teheran tra le potenze
legittime del Medio Oriente: gli Stati Uniti. Riyad ha realizzato che
non ha nulla da guadagnare dall’intralciare sulla pubblica piazza
l’accordo sul nuclea- re, diventato legge qualche mese fa. Ciò non
significa che le autorità saudite si siano adattate alla prospettiva di
un Iran intento a ricalibrare le sue relazioni con l’Occidente. La
monarchia ha più semplicemente deciso di affrontare la sfida in modo
meno dispendioso.
Parte di questo sforzo è
l’apertura nei confronti della Fratellanza musulmana e delle sue varie
incarnazioni regionali. Un’evoluzione significativa, dal momento che
l’ultimo re, ‘Abdallāh, aveva
bollato la filiale egiziana come organizzazione terroristica e minaccia
per la stabilità del regno. A riprova del miglioramento dei rapporti,
nel mese di luglio il nuovo monarca Salmān si è intrattenuto con Ḫālid Miš‘al, il leader di Ḥamās, ramo palestinese della confraternita. La nuova posizione saudita, vista l’importanza politica nel paese del partito al-Iṣlāḥ, alleato
della Fratellanza, ha contribuito a galvanizzare il sostegno dei
sunniti in Yemen nella guerra contro il movimento sciita degli ḥūṯī.
Nella tarda estate di due anni fa,
alla notizia della svolta nei colloqui tra Teheran e Washington, Riyad
rimase scioccata. Il regno elaborò allora due possibili risposte. La
prima consisteva in un allontanamento da un pilastro della sua
geopolitica eretto nel 1945: l’America come principale alleato e garante
della sua sicurezza – un’opzione però impraticabile e non
desiderabile. La seconda e complementare mossa prevedeva un ruolo più
assertivo di casa Sa‘ūd nello
scenario regionale. Nell’ottobre 2013, l’Arabia Saudita arrivava persino
a rinunciare al seggio non permanente del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite che le sarebbe spettato.
Il secondo sviluppo, tuttavia, non
è figlio dell’ultimo biennio, ma va letto nel contesto di una sequenza
di eventi degli ultimi dieci anni, ivi compresi l’invasione americana
dell’Iraq nel 2003, il conseguente rafforzamento degli sciiti locali, il
dominio di Ḥizbullāh in Libano e
le rivolte arabe. Nel corso dell’amministrazione Obama, un minore
coinvolgimento regionale degli Stati Uniti ha incoraggiato gli Stati del
Golfo a intervenire più direttamente nei conflitti.
I sauditi hanno passato il Rubicone
con la primavera araba, quando Washington spinse a dimettersi il suo
vecchio alleato Hosni Mubarak. La monarchia reagì alle scosse
telluriche del mondo arabo spedendo truppe e carri armati in Bahrein e
poi attivando alcune milizie in Siria per abbattere il regime di Baššār al-Asad,
molto vicino a Teheran. Nell’ottica della casa reale, le domande della
piazza a Manama non potevano non essere lette attraverso il prisma del
coinvolgimento iraniano nell’isola a maggioranza sciita. In ogni caso,
la Penisola Arabica resta l’unica zona in cui Riyad si è dimostrata
propensa a usare direttamente la forza militare.
La guerra in Yemen e il rapporto con gli Stati Uniti
A metà marzo 2015, Riyad ha lanciato una
campagna aerea in Yemen – cui poi s’è aggiunta un’invasione di terra –
imponendo un blocco aeronavale nel tentativo di forzare il movimento
degli ḥūṯī a retrocedere, dopo aver guadagnato posizioni
nel corso degli ultimi mesi. Questa guerra presenta alcune somiglianze
con l’operazione in Bahrein del 2011. In entrambi i casi, l’Arabia
Saudita era convinta che un potente gruppo sciita creato dagli iraniani
fosse sul punto di costitui- re una minaccia per il regno. Ogni volta,
Washington ha rassicurato i timori sauditi, fornendo addirittura
supporto logistico e d’intelligence per l’operazione Decisive Storm
(Tempesta decisiva). L’amministrazione Obama ritiene necessario
sostenere Riyad nel suo cortile di casa per blandire la sua opposizione
all’accordo con Teheran e per fugare i timori sauditi di un abbandono
statunitense. Anche se restano i dubbi espressi dai funzionari americani
sulle conseguenze della guerra riguardo alla sicurezza regionale e
sulle accuse saudite agli iraniani per aver armato e finanziato gli ḥūṯī:
lo Yemen è stracolmo di armi e tutto ciò che la milizia ha impiegato
in battaglia si sarebbe potuto benissimo trovare sui mercati locali.
A settembre, re Salmān ha
incontrato il presidente statunitense a Washington, ufficializzando lo
stato dell’arte dei rapporti reciproci: gli americani accettano la
guerra in Yemen e i sauditi inghiottono l’amaro calice dell’intesa con
l’Iran, anche al costo di soffocare le divergenze di vedute. Benché
Obama, in alcune interviste risalenti a qualche mese fa, abbia suggerito
come la vera minaccia alla stabilità saudita non verrà da oltre Golfo
ma dal dissenso interno, la sua amministrazione ha chiaramente deciso
di non sollevare ora questo problema di lungo periodo. «Le maggiori
minacce con cui si confrontano possono non derivare da un’invasione
iraniana, ma verranno dal malcontento interno», aveva detto l’inquilino
della Casa Bianca. Nel caso dei sauditi, questi problemi includono
l’assenza di diritti di rappresentanza, le richieste di
un’apertura democratica da parte di molte forze politiche, la diffusa
disoccupazione che colpisce i giovani borghesi e la diseguale
distribuzione del benessere tra le classi e tra le regioni. Le guerre
saudite e i prezzi del petrolio al ribasso stanno costringendo il
governo ad attingere alle riserve messe da parte nello scorso decennio
di bonanza, per tenere alte le spese promesse agli elementi del regime
che svolsero un ruolo chiave nell’allontanare lo spettro della primavera
araba nel 2011.
La guerra in Yemen non sta andando
secondo i piani. Riyad aveva visto nel conflitto un’occasione per
assicurarsi alleanze con diversi attori regionali e rafforzare la sua
posizione nei confronti dell’Iran, ponendosi a capo di un asse militare
difensivo per rispondere alle percepite minacce persiane. Gli esordi
dell’iniziativa non erano stati molto promettenti, con il rifiuto
pakistano ed egiziano di spedire le proprie truppe di terra nei pressi
dello stretto di Bāb al-Mandab.
Le cose, però, sembrano essere cambiate a inizio settembre, dopo la
morte di 45 soldati emiratini, 10 sauditi e 5 bahreiniti in un giorno
solo. In poco tempo, il Qatar ha annunciato l’invio di mille uomini e il
Sudan, secondo alcune fonti, di 6 mila, per dar forma a quella che la
stampa araba filo-alleata descrive come una campagna alla conquista di Ṣana‘ā’, dopo la presa di Aden in agosto. Gli ḥūṯī hanno
iniziato a compiere raid in territorio saudita e a lanciare missili,
con scarsi risultati. Più a lungo si trascinerà il conflitto e più
gli õûñø stringeranno legami significativi
con l’Iran – e non è detto ci riescano, visto il blocco aeronavale –
più aumenteranno le possibilità che l’Arabia Saudita avrà a che fare
con questo problema per un decennio. La vittoria di Aden ha suscitato
false speranze. ‘Abd Rabbih Manṣūr Hādī,
il presidente yemenita ospitato a Riyad, non è ancora stato in grado
di fare ritorno nel paese e il movimento separatista meridionale non si
è definitivamente alleato agli invasori. Lasciando il campo scoperto
per un’ipotetica avanzata di al- Qā‘ida in molti distretti.
I sauditi hanno sinora presentato la guerra come un grande successo. Il propagandista di governo Nawwāf al-‘Ubaydī,
che gestisce i rapporti del regime con giornalisti ed esperti e che
controlla la concessione dei loro visti per entrare nel regno, ha
scritto sul britannico Telegraph che l’Arabia
Saudita potrebbe applicare il modello yemenita a un intervento in Siria.
Le probabilità che lo faccia sono davvero poche. Gli Stati Uniti hanno
accettato l’avventura in Yemen con più di un dubbio, ma porrebbero
forti paletti nella guerra civile levantina, dove sono coinvolte già
troppe parti in conflitto tra loro e dove potrebbero essere minacciati
ben altri interessi americani. Riyad ha tradizionalmente usato le
proprie clientele per i suoi interventi regionali, come in Siria
(jihadisti vari), in Egitto (il partito salafita al-Nūr),
in Libano (altri gruppi salafiti) o in Iraq (militanti sunniti) e il
dubbio che questa politica abbia aiutato a generare lo Stato Islamico
(Is) continuerà ad affliggere i decisori occidentali ancora per diversi
anni.
C’è un altro aspetto
dell’attivismo saudita che ha attirato l’attenzione dei circoli politici
a Washington: il ruolo di primo piano assunto dal figlio del re, Muḥammad bin Salmān, nonostante sia solo il viceprincipe della corona. Prima
che la sua salute peggiori definitivamente, tenterà Salmān di rimuovere il ministro dell’Interno Muḥammad bin Nāyif dalla
sua carica di erede al trono, per sostituirlo con suo figlio? Mentre i
media sauditi usano la guerra in Yemen per glorificare Muḥammad bin Salmān, gli spifferi di palazzo, come quelli provenienti dall’anonimo profilo Twitter @Mujtahid, sostengono che Muḥammad bin Nāyif sta
prendendo tempo per vedere se gli entusiasmi per il giovane pretendente
svaniranno in caso di prolungamento all’infinito della guerra.
Al-Qā‘ida, un’utile milizia
Un altro elemento degno di nota da
interpretare come risposta indiretta al- l’accordo con l’Iran è la
posizione della monarchia saudita su al-Qā‘ida. Lo Yemen, come la Siria, è diventato un’altra arena in cui il radicalismo salafita, nominalmente opposto ai Sa‘ūd,
si rivela un’utile carta da giocare per perseguire gli scopi del regno.
Le connessioni di Riyad, Doha e altre capitali del Golfo con il fronte
di al-Nuṣra in
Siria, filiale locale qaidista, sono state argomento di dibattito nel
2014, vista l’ascesa dell’Is culminata con la proclamazione del
«califfato». L’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno
fatto a gara a scambiarsi reciprocamente la colpa per aver finanziato e
armato al-Nuṣra o la banda di al-Baġdādī.
Quando l’Is ha iniziato a filmare le decapitazioni degli occidentali e
gli Stati Uniti hanno reagito lanciando attacchi aerei, gli Stati del
Golfo si sono visti obbligati a unirsi alla campagna militare e a
distanziarsi dalla radicalizzazione della Mesopotamia.
Tuttavia, lo Yemen ha messo
prepotentemente in evidenza il modo in cui Riyad impiegherà i jihadisti
per i propri scopi quando necessario. In questo caso, la branca locale
di al-Qā‘ida viene considerata una milizia sunnita in grado di contrastare gli ḥūṯī.
All’inizio della campagna nell’Arabia meridionale, alcuni osservatori
hanno notato quanto i qaidisti stessero beneficiando degli attacchi
sauditi agli obiettivi governativi caduti nelle mani degli ḥūṯī e dei loro alleati a Ṣana‘ā’ e ad Aden. Nel giro di due settimane, i jihadisti delle province meridionali hanno assunto il controllo di Mukallā, città costiera dell’Ḥaḍramawt.
Nonostante le notizie di attacchi di droni contro obiettivi qaidisti da
parte degli Stati Uniti, Washington è stata di fatto costretta ad
accondiscendere al desiderio saudita di usare i jihadisti contro gli õûñø.
Il rischio è calcolato: al-Qā‘ida ha già usato in passato lo Yemen per colpire l’Arabia Saudita, compreso lo stesso erede al trono Muḥammad bin Nāyif, ma l’organizzazione sarà troppo impegnata nei conflitti locali per mettere nel mirino Riyad. La quale, in ogni caso, sotto Salmān si sta proponendo come l’idealtipico Stato islamico sunnita molto più insistentemente di quanto non facesse ‘Abdallāh. L’Is ha fatto circolare online video in cui promette di perseguitare gli ḥūṯī,
definiti «negazionisti e politeisti» da un gruppo chiamato Soldati del
califfato in Yemen. La stessa, tipica ingiuria settaria saudita ripetuta
sui social media da eminenti religiosi nelle prime settimane delle
operazioni a Ṣana‘ā’ e dintorni.
Instabile e paranoica
Una questione chiave a proposito
della risposta saudita a un accordo con l’Iran è ovviamente la
proliferazione nucleare e la corsa agli armamenti. Gli Emirati Arabi
Uniti stanno già portando avanti lo sviluppo dell’energia nucleare
civile, ma in stretta cooperazione con gli Stati Uniti. L’Arabia Saudita
ha palesato l’intenzione di seguirli a ruota, ma finora non ha fatto
granché. Nel frattempo, per segnalare la propria contrarietà al
riavvicinamento tra Washington e Teheran, ha fatto circolare per bocca
di vari portavoce di volersi dotare di armi atomiche, potenzialmente con
l’aiuto del Pakistan. Simili commenti si basano sull’assunto che, al di
là di tutto, l’Iran si doterà della Bomba, sebbene i presupposti
dell’accordo con gli Stati Uniti puntino decisamente in direzione
contraria.
L’eccitata retorica degli Stati del
Golfo è un indicatore di paure esistenziali derivanti più dalla
fragilità delle dinastie autocratiche che dallo scenario esibito in
pubblico di un’invasione iraniana. Questi regimi hanno cercato, là dove
possibile, di collegare le domande interne di riforme politiche allo
spettro di Teheran, spingendosi al punto di evocare una connessione fra
l’Iran e la Fratellanza musulmana negli Emirati Arabi Uniti, già
perseguita in una serie di processi giudiziari.
‘Abd al-Raõmān al-Rašīd, general manager della televisione al-Arabiya,
ha scritto il 10 maggio scorso che questi Stati temono che l’accordo
nucleare spalanchi le porte all’Iran, consentendogli di «minacciare la
stessa esistenza del Golfo». A tanto arriva il livello di paranoia delle
monarchie dell’area e delle loro élite. L’ambasciatore a Washington
degli Emirati, Yūsuf al-‘Utayba, in vista dell’incontro
dello scorso maggio a Camp David tra l’amministrazione americana e i
leader del Golfo, ha invocato la necessità di una nuova forma di
accordo «istituzionalizzato» per irrobustire la sicurezza dei paesi
della zona, «visto il comportamento regionale dell’Iran». Come se non
bastassero le garanzie del sostegno americano, le vendite di armi e la
cooperazione nella difesa.
A differenza degli Stati del Golfo
più piccoli, per l’Arabia Saudita la posta in gioco è ancor più
sensibile. In ballo, nelle partite delle rivolte arabe e del
riavvicinamento tra Teheran e Washington, c’è il modello
saudo-wahhabita di Stato islamico che perpetua l’autocrazia e lo
sfruttamento dei cittadini. Ciò si lega anche alla politica estera
filoccidentale di Riyad. Uno dei grandi regali dei Sa‘ûd ai
loro protettori è stata una politica estera adattata ai loro
interessi: dalla guerra in Kuwait a quella in Iraq, dalle concessioni
palestinesi a Israele alle sfide ai gruppi che lo stesso Occidente bolla
come radicali – siano essi Ḥamās, Ḥizbullāh o
di sinistra – fino ad arrivare pure a finanziare una ribellione contro
il governo del Nicaragua negli anni Ottanta. Il messaggio saudita al suo
popolo è che la resistenza non funziona: la via da battere è
cooperare con l’Occidente e facilitarne le politiche nella regione.
Invece, il messaggio alla base religiosa wahhabita – perno dell’alleanza
che permette ai Sa‘ūd di regnare – è: lasciateci fare in politica estera, siamo noi a garantire la sicurezza del regno in cui voi avete molta più mano libera per applicare la šarī‘a che in qualunque altro posto al mondo (eccezion fatta per i territori dell’Is).
Per il clero wahhabita, l’ascesa iraniana è diventata anche
una questione di prestigio confessionale. Durante la guerra in Libano
del 2006, la speranza saudo-wahhabita era che Israele schiacciasse Ḥizbullāh. Nei confronti della classe religiosa nazionale, i Sa‘ūd apparivano
deboli, messi fuorigioco da un gruppo sciita che aveva apertamente
sfidato l’Occidente. Oggi, la casa reale ha bisogno delle guerre in
Yemen e in Siria per dimostrare ai wahhabiti di essere in grado di
difendere i sunniti dalle devianze sciite e persiane. In altre parole, a
un accordo con l’Iran i sauditi risponderanno con un conflitto perenne:
non possono accet- tarlo, non è nella loro natura settaria. Un’intesa
rischierebbe di rafforzare le richieste dei cittadini di maggiori
diritti e di avere voce in politica estera, sfere dalle quali sono
tendenzialmente esclusi. Per concludere, possiamo aspettarci che l’Arabia Saudita tenti di rafforzare il legame con gli Stati Uniti, di ottenere ulteriori garanzie di sicurezza e cooperazione, di comprare ancor più armi di quanto già non faccia, di investire più denaro nella ribellione jihadista in Siria e di proseguire i suoi interventi in Yemen e Bahrein. In ultima istanza, di reprimere duramente il dissenso interno, perseguendo gli attivisti dei diritti umani e civili, soffocando le proteste, specie nella Provincia orientale a maggioranza sciita. Cercherà di puntellare le proprie credenziali sunnite e di placare gli ‘ulamā’ wahhabiti.
Il risultato dell’accordo con l’Iran sarà un’intensificazione del settarismo an- tisciita nella regione. Proseguirà la retorica della difesa del «modello di governo del Golfo», sempre più presentato – non senza stonature – come la risposta appropriata a una democrazia di tipo occidentale. È paradossale, ma questi regimi si rivelano tanto più instabili e paranoici quanto più strappano garanzie di sicurezza a Washington. E quanto più intervengono in modo goffo nei conflitti vicini e lontani.
(traduzione di Federico Petroni)
"Si
sarebbe tentati di interpretare in chiave religiosa anche le altre due
partite che orientano la geopolitica contemporanea di Riyad: quella con i
Fratelli musulmani e quella con l'Iran". La carta di Francesca La
Barbera illustra la visione di Riyad…
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