Come le colonie israeliane soffocano l’economia palestinese di Nur Arafeh, Samia al-Botmeh, Leila Farsakh
Nell'incontro
svoltosi a Roma il 10 dicembre su "Diritto alla cultura, diritti umani:
il caso Palestina" un partecipante ha chiesto informazioni
sull'economia delle colonie israeliane a cui ha risp...
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Nell’incontro svoltosi a Roma il 10 dicembre su “Diritto alla cultura, diritti umani: il caso Palestina” un partecipante ha chiesto informazioni sull’economia delle colonie israeliane a cui ha risposto Wasim Dahmash. Da lui abbiamo ricevuto questo interessante articolo pubblicato da Al-Shabaka , tradotto da Amedeo Rossi, che ringraziamo. Il testo originale qui https://al-shabaka.org/briefs/how-israeli-settlements-stifle-palestines-economy/
Nur Arafeh, Samia al-Botmeh, Leila Farsakh
Al Shabaka e Ma’an News
16 dicembre 2015
Israele
vede le linee giuda recentemente emanate dall’Unione Europea per
l’etichettatura di alcuni prodotti delle sue colonie come la punta
dell’iceberg. Teme che ciò aprirà la porta a misure più dure contro la
sua colonizzazione illegale e sta mettendo in campo le forze
filo-israeliane in Europa e negli Stati Uniti. Uno degli argomenti
continuamente ripetuti è che l’etichettatura danneggia i lavoratori
palestinesi.
In questo documento la responsabile politica di Al-Shabaka Nur Arafeh e le consulenti politiche Samia al-Botmeh e Leila Farsakh
sfatano gli argomenti addotti da Israele contro la decisione
dell’Unione Europea di etichettare i prodotti delle colonie, dimostrando
l’impatto devastante che il sistema delle colonie israeliane ha avuto
sull’economia palestinese togliendo ai palestinesi la terra, l’acqua e
altre risorse e creando una massiccia disoccupazione. Affrontano anche
la condizione di quei lavoratori palestinesi – una minoranza della forza
lavoro – che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle
colonie che hanno danneggiato in modo così grave l’economia dei
palestinesi e più in generale i loro diritti. Proseguono esaminando il
passo dell’Unione Europea (UE) e suggeriscono le iniziative successive
che l’UE dovrebbe prendere per rispettare pienamente le leggi
internazionali ed europee1.
Il contesto
Ci
sono voluti anni all’Unione Europea per sviluppare la sua posizione
sull’etichettatura dei prodotti delle colonie che Israele ha costruito
sui territori palestinesi e siriani [le Alture del Golan. Ndtr.] fin da
quando li ha occupati nel 1967. La Commissione Europea ha emanato una
decisione nel 1998 in cui si sospettava che Israele stesse violando
l’accordo di associazione con l’UE, firmato nel 1995 e entrato in vigore
nel 2000, che esentava i prodotti israeliani dal pagamento di dazi
doganali. Nel 2010 la Corte Europea di Giustizia ha confermato che i
prodotti provenienti dalla Cisgiordania non beneficiavano del
trattamento doganale preferenziale in base all’accordo di associazione
dell’UE con Israele e che le affermazioni delle autorità israeliane non
erano vincolanti per le autorità doganali dell’UE.
Tuttavia
è stato solo nel 2015 che l’UE ha preso la decisione a lungo attesa di
adeguare le proprie azioni alle sue stesse regole, in parte come
risposta alla crescente pressione da parte della società civile perché
riconoscesse l’illegalità delle colonie. Il 10 settembre il Parlamento
Europeo ha approvato una risoluzione che chiede l’etichettatura dei beni
delle colonie israeliane in quanto prodotti negli “insediamenti
israeliani” piuttosto che in “Israele” e che garantisce che non
beneficino del trattamento preferenziale sugli scambi in base al
Trattato di Associazione tra l’Ue ed Israele. Due mesi dopo, l’11
novembre, l’UE ha emanato le linee guida attese da molto tempo riguardo
all’etichettatura, che ha definito in un linguaggio molto discreto come
una “Comunicazione Interpretativa”. Tuttavia i prodotti delle colonie
saranno ancora commerciati con l’Unione Europea (EU), lasciando ai
consumatori la “decisione informata” se comprare o meno questi prodotti.
Israele
sostiene che l’iniziativa dell’UE è “discriminatoria” e che è dannosa
per l’economia palestinese in generale e per i lavoratori palestinesi in
particolare. E’ chiaramente un tentativo da parte di Israele di
distogliere l’attenzione internazionale dalla realtà dell’illegale
colonizzazione israeliana, dei suoi effetti profondamente negativi per
l’economia palestinese e degli obblighi morali e giuridici dell’UE. In
effetti, l’intera colonizzazione da parte di Israele è illegale in base
al diritto internazionale, come riconfermato dalla Corte Internazionale
di Giustizia nel suo “Parere consultivo” del 2004 sul Muro di
Separazione costruito da Israele. Il trasferimento da parte di Israele
della sua popolazione nei territori occupati è una violazione della
Convenzione dell’Aja del 1907 e della Quarta Convenzione di Ginevra del
1949.
Lo sfruttamento economico dei Territori Palestinesi Occupati da parte delle colonie
Il
presente rapporto riguarda i territori occupati da Israele nel 1967 – la
Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la Striscia di Gaza e le Alture
del Golan, e più specificamente le colonie israeliane e gli avamposti
costruiti nei Territori Palestinesi Occupati (TPO)2. Non affronta tutte le violazioni delle leggi internazionali e dei diritti dei palestinesi da parte di Israele.
Il
fatto che la costruzione delle colonie israeliane si sia basata sullo
sfruttamento economico dei TPO è stato ampiamente documentato. Ciò ha
incluso la confisca di ampie zone di terra palestinese e la distruzione
di proprietà palestinesi per utilizzarle a scopi edilizi ed agricoli; la
confisca di risorse idriche, al punto che 599.901 coloni utilizzano sei
volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della
Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti; l’appropriazione di
luoghi turistici e archeologici; lo sfruttamento di cave, miniere,
risorse del Mar Morto e di altre risorse naturali non rinnovabili dei
palestinesi, come sarà argomentato in seguito.
Le
colonie sono anche state agevolate da un sistema infrastrutturale di
strade, di checkpoint e dal Muro di Separazione, portando alla creazione
di bantustan isolati in Cisgiordania e all’appropriazione di altra
terra palestinese.
In
conseguenza di ciò attualmente le colonie israeliane controllano circa
il 42% della terra della Cisgiordania. Questo dato comprende aree
edificate così come i confini municipali delle colonie israeliane.
Questi confini attualmente comprendono un’area 9,4 volte più ampia di
quelle edificate nelle colonie della Cisgiordania e sono proibiti ai
palestinesi che non hanno un permesso per accedervi.
La
maggioranza delle colonie della Cisgiordania sono costruite nell’Area C,
che rappresenta il 60% della Cisgiordania e che è molto ricca di
risorse naturali3.
Secondo uno studio della Banca Mondiale, il 68% dell’Area C è stato
destinato alle colonie israeliane, mentre meno dell’1% è stato concesso
all’utilizzo da parte dei palestinesi.
All’interno
dell’Area C lo sfruttamento da parte delle colonie israeliane è
concentrato nella Valle del Giordano e nella parte settentrionale del
Mar Morto. Le colonie israeliane controllano l’85,2% di queste zone, che
sono le terre più fertili della Cisgiordania. L’abbondante
disponibilità di acqua e il clima favorevole forniscono le migliori
condizioni per l’agricoltura. Di conseguenza producono il 40% delle
esportazioni di datteri da Israele. Nel contempo i palestinesi hanno il
divieto di vivere lì, costruire o persino pascolare il loro bestiame con
il pretesto che si tratta di “terre statali”, di ” zona militare”
oppure di “riserve naturali”.
Israele
ricorre anche ad altri metodi per espellere i palestinesi dalle loro
terre, distruggendo le case, proibendo la costruzione di scuole e
ospedali e negando ai residenti l’accesso a servizi essenziali come
l’elettricità, l’acqua e l’escavazione di pozzi. Al contrario, molte
colonie sono definite “aree di priorità nazionale”, permettendo loro di
ricevere incentivi finanziari dal governo israeliano nei settori
dell’educazione, della salute, dell’edilizia, dello sviluppo industriale
ed agricolo4.
I
proventi israeliani derivanti dallo sfruttamento della terra palestinese
e delle risorse della Valle del Giordano e dell’area settentrionale del
Mar Morto sono stimati attorno ai 500 milioni di shekel all’anno (circa
118 milioni di euro). Per avere
un’idea dell’impatto sull’economia palestinese, vale la pena di notare
che i costi indiretti delle restrizioni imposte da Israele all’accesso
palestinese all’acqua nella Valle del Giordano – e di conseguenza
l’impossibilità di coltivare la loro terra – erano pari a 663 milioni di
dollari [circa 616 milioni di euro. Ndtr.], l’equivalente dell’8,2% del
prodotto interno lordo palestinese nel 2010.
Nel
frattempo Israele continua a costruire nuove colonie. Netanyahu, durante
il suo discorso all’US Center for American Progress [organizzazione liberal vicina
ai Clinton e ad Obama. Ndtr.] in novembre, ha sostenuto che nessuna
nuova colonia è stata edificata negli ultimi vent’anni. Di fatto 20
colonie israeliane sono state approvate durante i suoi mandati, tre
delle quali erano avamposti illegali che sono state successivamente
regolarizzate dal governo.
La
manifestazione più recente della politica di colonizzazione israeliana è
la ripresa della costruzione del Muro di Separazione nei pressi di Beit
Jala in Cisgiordania, che di fatto separa gli abitanti del villaggio
dalle terre coltivate di loro proprietà nella valle di Cremisan. Il
percorso di questo tratto di Muro è stato disegnato per permettere
l’annessione della colonia di Har Gilo, a sud di Gerusalemme, mettendola
in collegamento con la colonia di Gilo, che si trova all’interno dei
confini del Comune di Gerusalemme creati da Israele dopo l’inizio
dell’occupazione, nel 1967.
Un’economia palestinese strangolata dalle colonie
La
colonizzazione illegale da parte di Israele ha avuto decisamente un
effetto profondamente negativo sull’economia palestinese. Il controllo
israeliano su acqua e terra ha contribuito a ridurre la produttività del
lavoro del settore agricolo ed il suo contributo al PIL: l’apporto di
agricoltura, settore forestale e della pesca è sceso dal 13,3% del 1994
al 4,7% nel 2012, ai prezzi attuali. Lo sversamento di rifiuti solidi e
liquidi dalle zone industriali delle colonie nei TPO ha ulteriormente
inquinato l’ambiente, la terra e l’acqua dei palestinesi.
L’accesso
limitato alle cospicue risorse del Mar Morto ha impedito ai palestinesi
di sviluppare il settore dei cosmetici e altre industrie, basate
sull’estrazione di minerali. Uno studio della Banca Mondiale stima che
se non ci fossero state restrizioni alla disponibilità di queste
risorse, la produzione e la vendita di magnesio, potassio e bromo
avrebbe comportato un valore annuo di 918 milioni di dollari [circa 844
milioni di euro. Ndtr.] per l’economia palestinese, l’equivalente del 9%
del PIL nel 2011.
Le
drastiche limitazioni nell’accesso alle miniere e alle cave nell’Area C
ha anche ostacolato la possibilità per i palestinesi di estrarre ghiaia e
pietre. Il valore lordo annuo stimato come perdita per l’economia
palestinese per l’estrazione da cave e miniere è di 575 milioni di
dollari [circa 529 milioni di euro. Ndtr.]. In totale, si stima che le
limitazioni all’accesso ed alla produzione nell’Area C sono costate
all’economia palestinese 3.4 miliardi di dollari [più di 3.1 miliardi di
euro Ndtr.]. Come esaminato in un precedente documento di Al-Shabaka,
Israele controlla persino l’accesso dei palestinesi al loro stesso campo
elettromagnetico – una politica a cui contribuiscono le colonie –
creando perdite tra gli 80 ed i 100 milioni di dollari annui [dai 73 ai
92 milioni di euro. Ndtr.] per gli operatori palestinesi delle
telecomunicazioni.
Inoltre
l’assenza di contiguità territoriale all’interno della Cisgiordania,
unita ad altre restrizioni israeliane al movimento ed all’accesso, ha
frammentato la sua economia in piccoli mercati non connessi tra loro.
Ciò ha incrementato i tempi ed i costi di trasporto delle merci da una
zona della Cisgiordania ad un’altra e dalla Cisgiordania al resto del
mondo. In seguito a ciò, la competitività dei prodotti palestinesi sui
mercati locali e internazionali è stata indebolita.
Oltretutto,
poiché l’economia in Cisgiordania è stata viziata dall’imprevedibilità e
dall’incertezza – il che non è sorprendente, in quanto l’area è
sottoposta a un’occupazione militare – il costo ed i rischi di fare
impresa sono aumentati. Ciò ha peggiorato il clima per gli investimenti,
limitato lo sviluppo economico e aumentato la disoccupazione e la
povertà. Nel complesso si stima che il costo diretto ed indiretto
dell’occupazione sia stato di circa 7 miliardi di dollari [6,4 miliardi
di euro. Ndtr] nel 2010 – circa l’85% del PIL palestinese stimato5.
Spossessati: i lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane
L’economia
palestinese è stata quindi colpita da fragilità strutturali e
settoriali che sono principalmente dovute all’occupazione israeliana e
alla colonizzazione. L’espropriazione di terra, acqua e risorse naturali
da parte delle colonie e il controllo restrittivo di Israele sui
movimenti, l’accessibilità e altre libertà ha indebolito la base
produttiva dell’economia, che non è più in grado di generare occupazione
e investimenti sufficienti ed è sempre più dipendente dall’economia
israeliana e dagli aiuti dall’estero.
Questa
dura realtà economica è il fattore principale che porta alcuni
palestinesi a lavorare nelle colonie israeliane – si stima che siano
state solo il 3,2% del totale degli occupati della Cisgiordania nel
terzo quadrimestre del 20156.
Invece di essere auto-sufficienti proprietari dei mezzi di produzione, i
palestinesi sono stati spossessati delle loro risorse economiche e dei
loro diritti dall’occupazione militare e dalle colonie israeliane e sono
stati trasformati in manodopera a basso costo.
Infatti
la maggior parte dei lavoratori palestinesi nelle colonie è impiegata
in lavoro di bassa qualifica e retribuzione: almeno la metà di loro è
utilizzata nel settore edile. Ciò significa che meno del 2% del totale
della popolazione palestinese occupata sarebbe colpita nel caso di
chiusura delle industrie israeliane nelle colonie.
I
lavoratori palestinesi nelle colonie sono sottoposti a condizioni di
lavoro difficili e a volte pericolose, e si stima che il 93% di loro non
abbia un sindacato che li rappresenti. Di conseguenza sono soggetti a
licenziamenti arbitrari ed alla revoca del permesso di lavoro se
rivendicano i propri diritti o cercano di sindacalizzarsi. Una ricerca
del 2011 ha scoperto che la maggioranza dei lavoratori palestinesi
avrebbe lasciato il proprio lavoro nelle colonie se avesse trovato
un’alternativa nel mercato del lavoro palestinese.
Mentre
si sostiene che i lavoratori palestinesi nelle colonie ricevono un
salario superiore a quello del mercato del lavoro palestinese, è il caso
di notare che sono pagati in media meno della metà del salario minimo
israeliano. Ad esempio a Beqa’ot, una colonia israeliana nella Valle del
Giordano, i palestinesi sono pagati il 35% del salario minimo legale.
E’ da notare che gli impianti di impacchettamento della Mehadrin, il più
grande esportatore israeliano di frutta e verdura nell’UE, si trovano
in questa colonia.
In
breve, è proprio il colonialismo di insediamento israeliano che nuoce ai
palestinesi, molto più che l’etichettatura da parte dell’UE dei
prodotti delle colonie. Quello di cui i palestinesi hanno bisogno non è
più lavoro nelle colonie o più dipendenza dall’economia israeliana.
Piuttosto quello di cui i palestinesi hanno bisogno è lo smantellamento
delle colonie israeliane, la fine dell’occupazione e la piena
realizzazione dei loro diritti in base alle leggi internazionali. Solo
allora potranno realmente migliorare la base produttiva dell’economia
palestinese, generare opportunità di lavoro, garantirsi autonomia e
auto-sufficienza e smettere di essere dipendenti dagli aiuti
internazionali.
La distanza tra la retorica dell’UE e le sue azioni
E’
contro questo contesto che il ruolo dell’UE nei riguardi delle colonie
israeliane deve essere messo in discussione. L’UE riconosce che le
colonie israeliane costruite nei TPO sono illegali. La sua
“Comunicazione Interpretativa” stabilisce chiaramente che l’UE, “in
linea con le leggi internazionali, non riconosce la sovranità di Israele
sui territori occupati da Israele dal giugno 1967.” Tuttavia l’UE
continua ad importare beni dalle colonie israeliane (soprattutto frutta e
verdura fresche coltivate nella Valle del Giordano) per un valore annuo
stimato in 300 milioni di dollari [276 milioni di euro. Ndtr.]. E’ più
di 17 volte il valore medio annuale dei prodotti esportati dai TPO
nell’UE tra il 2004 e il 2014.
Nonostante
la “Comunicazione Interpretativa”, rimane una grande discrepanza tra i
discorsi dell’UE e le sue azioni, e la “Comunicazione” è insufficiente
per adempiere agli obblighi legali dell’UE per varie ragioni. In primo
luogo, non tutti i prodotti provenienti dalle colonie israeliane devono
essere etichettati. Solo la frutta fresca e le verdure, il pollame,
l’olio d’oliva, il miele, l’olio, le uova, il vino, i cosmetici e i
prodotti organici sono soggetti all’indicazione obbligatoria
dell’origine. Cibi pre-confezionati e prodotti industriali che non siano
cosmetici sono soggetti solo all’indicazione volontaria dell’origine.
In
più le imprese israeliane che operano nelle colonie possono facilmente
aggirare l’etichettatura dei loro prodotti. Ad esempio, possono mettere
insieme beni prodotti nelle colonie con altri prodotti in Israele per
evitare che siano etichettati come “prodotti nelle colonie”. Possono
utilizzare l’indirizzo di un ufficio all’interno dei confini di Israele
internazionalmente riconosciuti come l’indirizzo ufficiale dell’impresa
piuttosto che l’effettivo luogo di produzione. L’UE dovrebbe anche
rilevare il fatto che le imprese che etichettano i propri prodotti come
provenienti dalle colonie possono ricevere delle compensazioni dal
governo israeliano per le eventuali perdite. Si stima che il bilancio
dello Stato abbia destinato circa 2 milioni di dollari [1,8 milioni di
euro. Ndtr.] ogni anno negli ultimi 10 anni per compensare le imprese
israeliane delle colonie per le perdite cui devono far fronte a causa
della fine del trattamento doganale di favore e di altre agevolazioni.
Nel
contempo le stesse linee guida per l’etichettatura sono un’arma
spuntata, in quanto “l’applicazione delle attuali disposizioni ricade
sotto la responsabilità principale degli Stati membri”, come stabilisce
la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE. Cosa ancora più importante,
limitandosi ad etichettare i prodotti provenienti dalle colonie e
mantenendo al contempo relazioni commerciali e investimenti con queste
ultime, l’UE sta in realtà continuando a finanziare l’espansione degli
insediamenti ed a perpetuare l’occupazione israeliana, lo sfruttamento
delle risorse naturali e l’appropriazione delle terre palestinesi – una
situazione illegale che l’UE sostiene di non “riconoscere”.
Inoltre,
in chiara opposizione con quanto sostiene, l’UE intraprende progetti
con imprese israeliane che sono profondamente coinvolte nelle colonie e
nell’occupazione. Per esempio, l’UE ha approvato 205 progetti con la
partecipazione israeliana a “Horizon 2020”, il più vasto programma di
ricerca e innovazione dell’UE. Le imprese israeliane che vi partecipano
comprendono Elbit, che è direttamente coinvolta nella costruzione degli
insediamenti e del Muro; le Israel Aerospace Industries [industrie
aerospaziali israeliane], che forniscono i macchinari necessari per la
costruzione del Muro; l’università Technion, che lavora con il complesso
militare israeliano. Banche europee sono anche legate a banche
israeliane che forniscono mutui ipotecari ai coloni, finanziano le
autorità israeliane nelle colonie e nella costruzione di insediamenti
che godono del sostegno da parte dello Stato e altre attività economiche
che promuovono la colonizzazione.
Pertanto
la “Comunicazione Interpretativa” dell’UE sembra essere principalmente
un atto simbolico, attraverso il quale [l’UE] risponde solo formalmente
alla crescente richiesta della società civile europea, sempre più
favorevole al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le
Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi, che vuole che essa rispetti i
propri regolamenti e che Israele sia chiamato a rendere conto delle
proprie azioni. In base alle leggi internazionali gli Stati terzi sono
obbligati a non riconoscere come lecita una situazione illegale, a non
fornire alcun tipo di assistenza per mantenere una situazione illegale e
a collaborare per garantire che Israele rispetti le leggi umanitarie
internazionali. In altre parole, l’UE e i suoi Stati membri dovrebbero
fare quanto possibile per porre fine alla colonizzazione da parte di
Israele.
Come l’UE potrebbe rispettare meglio la legge
L’UE
dovrebbe iniziare a trasformare le sue parole in misure concrete per
rendere Israele responsabile, istituendo un blocco totale su ogni
attività economica, finanziaria, commerciale e di investimenti diretta o
indiretta con le colonie israeliane, seguendo le orme di Copenhagen,
Reykjavik e recentemente Amsterdam. Come raccomandato poco tempo fa in
un rapporto del Consiglio Europeo delle Relazioni Estere [centro studi
paneuropeo, i cui membri sono ex-ministri degli esteri, imprenditori,
intellettuali ed attivisti, il cui scopo è promuovere il dibattito e
favorire una politica estera efficace fondata sui valori europei.
Ndtr.], dovrebbe anche sospendere le relazioni finanziarie con le banche
israeliane, soprattutto quelle che finanziano l’occupazione e la
costruzione delle colonie. In più, da parte loro gli Stati membri
dell’UE dovrebbero cessare ogni relazione con le colonie israeliane.
Va
qui osservato che l’UE è il principale partner commerciale di Israele,
con scambi totali attorno ai 30 miliardi di euro nel 2014, che
rappresentano circa il 33% del totale delle esportazioni israeliane di
beni e servizi nel 20147.
Il commercio dell’UE con le colonie israeliane rappresenta meno dell’1%
del commercio dell’UE con Israele. Una iniziativa seria da parte
dell’UE avrebbe un impatto consistente sulla colonizzazione israeliana e
sulla prolungata occupazione militare.
Oltre
a passare dall’etichettatura dei prodotti delle colonie a porre fine ad
ogni relazione con gli insediamenti israeliani, i Paesi europei
dovrebbero prendere in considerazione un embargo di tutti i prodotti
israeliani. Fin da quando l’UE ha riconosciuto che il controllo di
Israele sui TPO è una situazione di occupazione – un’occupazione
militare che dura da circa 50 anni – avrebbe dovuto affrontare le cause
profonde dell’occupazione, cioè la politica del governo israeliano,
piuttosto che solo il suo effetto, ossia le colonie.
Per
esempio, nel caso dell’apartheid in Sud Africa, un boicottaggio
concentrato solo sugli affari che riguardavano le township non avrebbe
avuto un grande effetto sul sistema di apartheid. Allo stesso modo,
boicottare solo i prodotti degli insediamenti israeliani avrebbe un
impatto molto minore che boicottare il sistema concreto che sta
organizzando la colonizzazione dei territori per fare pressione su
Israele perché ponga fine all’occupazione. Per questo è importante
vietare ogni prodotto israeliano e non solo quelli delle colonie. Un
simile passo prenderebbe di mira, tra le altre cose, l’inganno
israeliano riguardo all’origine dei prodotti e delle materie prime che
provengono dagli insediamenti. E’ difficile controllare, a meno che
siano realmente boicottate le imprese e non solo i loro beni e servizi.
In effetti molte delle imprese che lavorano nelle colonie provengono da
Israele piuttosto che dai territori del 1967.
Gli
appelli per un boicottaggio totale stanno aumentando e trovando
adesioni in luoghi imprevisti. Per esempio, due docenti universitari
statunitensi hanno recentemente sostenuto in un editoriale sul ”
Washington Post” che boicottare solo i prodotti delle colonie “non
avrebbe un impatto sufficiente”. Hanno invece proposto “un ritiro
dell’aiuto e del supporto diplomatico USA e il boicottaggio e il
disinvestimento dall’economia israeliana” per modificare i piani
strategici di Israele.
Per
la Palestina, un simile divieto aiuterebbe a proteggere i prodotti
palestinesi, aumenterebbe la loro competitività e aiuterebbe in futuro a
rafforzare la capacità dell’economia palestinese di integrarsi con
quella internazionale, una volta che la libertà sia garantita. Il
boicottaggio di tutti i prodotti ed i servizi israeliani sarebbe un modo
efficace per dare la possibilità ai palestinesi di sconfiggere il
colonialismo israeliano. Ciò sarebbe molto più efficace che fornire
assistenza per lo sviluppo a settori specifici e risponderebbe
direttamente alla richiesta del popolo palestinese di libertà e diritti
umani.
Note:
-
Le autrici ringraziano l’ufficio Palestina/Giordania della fondazione Heinrich-Böll per la cooperazione e la collaborazione con Al-Shabaka in Palestina. Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità delle autrici e non riflettono necessariamente l’opinione della fondazione Heinrich-Böll.
-
Gli avamposti delle colonie sono costruiti senza l’autorizzazione ufficiale del governo israeliano. Tuttavia ricevono supporto finanziario da ministeri, agenzie governative, fondazioni locali ed internazionali e da privati (soprattutto dagli USA). Spesso Israele dopo un certo lasso di tempo li “legalizza”.
-
In base agli accordi di Oslo, la Cisgiordania è stata divisa provvisoriamente in Area A, che dovrebbe essere sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese ma è sottoposta a frequenti incursioni militari israeliane, Area B, sotto controllo condiviso di israeliani e palestinesi, ed Area C, sotto controllo esclusivo di Israele. Questo periodo provvisorio è scaduto nel maggio 1999.
-
Per maggiori informazioni vedi “Trading Away Peace: How Europe helps sustain illegal Israeli settlements.” [“Vendere la pace: come l’Europa aiuta a sostenere le illegali colonie israeliane “]
-
I costi diretti sono i costi supplementari sostenuti dai palestinesi in conseguenza delle restrizioni imposte dagli israeliani all’accesso ed al movimento, compresi i maggiori costi dell’acqua e dell’elettricità. I costi indiretti sono le perdite di entrate provenienti dalla produzione che i palestinesi avrebbero potuto fare se non ci fossero state queste limitazioni da parte israeliana. Un esempio di costi indiretti è rappresentato dal valore aggiunto dell’estrazione delle risorse del Mar Morto.
-
In base all’inchiesta sulla forza lavoro realizzata nel novembre 2015 dal PCBS [Palestinian Central Bureau of Statistics, istituzione ufficiale del governo palestinese. Ndtr.], nel periodo luglio-settembre 2015 il numero di lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane in Cisgiordania era di 22.100, su un totale di 674.900 lavoratori in Cisgiordania.
-
Da confrontare con il commercio dell’UE con i TPO, che nel 2014 è stato di circa 154 milioni di euro.
(Traduzione di Amedeo Rossi)
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