Anna Momigliano :Israele e gli altri: un dissidio irrisolto. Un estratto del libro







Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e i suoi cittadini arabi si è molto deteriorato (circa il 20% degli israeliani è di etnia araba).
Persino il presidente Reuven Rivlin ha denunciato che Israele sta diventando «una società malata»: questo ha spinto alcuni arabi benestanti, come lo scrittore Sayed Kashua, e molti giovani israeliani di sinistra a lasciare il Paese.
Quello che segue è un estratto dal primo capitolo del saggio Israele e gli altri: un dissidio irrisolto di Anna Momigliano, recentemente pubblicato da LaZisa, con prefazione di Tobia Zevi.

In un pomeriggio di luglio un padre israeliano è entrato nella cameretta del figlio più piccolo: «Puoi portare soltanto due giocattoli», gli ha detto, in ebraico. Quando arriveremo nella nostra nuova casa, in America, ti compreremo molti altri giocattoli, quanti ne vorrai, ha spiegato, però adesso ne puoi portare soltanto due, devi scegliere quali. Quel padre israeliano, uno scrittore di successo i cui libri sono tradotti in quindici lingue, ha altri due figli e una moglie. Ha deciso di lasciare Israele, forse per sempre, di accettare l'offerta di una prestigiosa università americana, di affittare il suo appartamento di Gerusalemme per trasferirsi a Chicago: i bagagli sono molti, il tempo stringe, dunque due giocattoli per ogni bambino.

Sayed Kashua, questo il nome del padre, è un arabo israeliano che scrive in lingua ebraica. I suoi romanzi sono pubblicati in Italia da Guanda e tradotti da Elena Loewenthal, la stessa che traduce mostri sacri della letteratura israeliana quali David Grossman, Amos Oz e Aharon Appelfeld. Classe 1975, Kashua è nato a Tira, un villaggio arabo poco lontano da Kfar Saba, ma è vissuto in mezzo agli ebrei israeliani da quando, a quattordici anni, è stato accettato in una scuola di Gerusalemme per ragazzi dotati. Successivamente ha studiato nell'Università Ebraica, sempre a Gerusalemme, dove ha acquistato un appartamento in un quartiere ebraico: la sua è l'unica famiglia araba della zona.

I suoi figli parlano l'ebraico meglio dell'arabo. Il più piccolo, che frequenta un asilo d'ispirazione religiosa, a scuola si diverte molto a recitare il ruolo del “papà dello Shabbat”. Secondo una pratica diffusa negli asili ebraici, in Israele così come nella Diaspora, i bambini imparano la ritualità del Sabato riproducendo la cerimonia che ogni famiglia ebrea celebra il venerdì sera: a turno, un maschietto viene scelto per essere il “papà dello Shabbat” e recita il Kiddush, la benedizione, mentre una bimba impersona la “mamma dello Shabbat” e accende le candele. Al figlio di Kashua questo gioco piace moltissimo e canta tutti i giorni la canzoncina “Mi Ohev Et Shabbat” (a chi piace il Sabato), tanto che il padre, un musulmano non praticante che ha messo piede in una moschea per la prima volta a quasi quarant'anni, l'ha soprannominato “HaTzion HaKatan”, “il Piccolo Sion.”

Già al tempo del liceo Kashua aveva deciso di scrivere in ebraico, lingua che aveva imparato ad amare grazie al poeta Shmuel Agnon (premio Nobel per la Letteratura nel 1966) e a romanzieri come Meir Shalev, con l'idea di fare conoscere agli ebrei il punto di vista degli arabi: «Volevo raccontare, in ebraico, di mio padre, che è stato messo in prigione per le sue idee politiche, senza neppure avere un processo. Volevo raccontare agli israeliani una storia, la storia dei palestinesi. Certamente, mi dicevo, quando l'avranno letta capiranno, quando l'avranno letta cambieranno, tutto ciò che devo fare è scrivere, e così l'Occupazione finirà. Devo solo diventare un bravo scrittore e libererò il mio popolo dai ghetti in cui vivono. Per salvarmi devo raccontare delle buone storie in ebraico: un altro libro, un altro film, un'altra rubrica su un giornale e i miei figli avranno un futuro migliore. Grazie alle mie storie un giorno diventeremo cittadini con pari diritti a quelli degli ebrei».

Poi, nell'estate del 2014, qualcosa l'ha convinto che non c'è più una speranza di cambiamento: «Qalcosa dentro di me s'è rotto. Quando dei ragazzi ebrei hanno sfilato per la città urlando “morte agli arabi”, e hanno attaccato arabi soltanto perché erano arabi, ho capito che avevo perso la mia piccola guerra. Per quanto sia difficile, se non impossibile, dovrò trovare un'altra lingua in cui scrivere», ha scritto sul Guardian.

I fatti cui si riferiva sono l'assassinio di Mohammed Abu Khdeir, il giovanissimo palestinese rapito e bruciato vivo da tre estremisti ebrei il 2 luglio, e le numerose manifestazioni anti-arabe che si sono svolte, nelle strade delle città israeliane tanto quanto sui social network, in quel periodo. Poco tempo prima, il 12 giugno, tre ragazzini ebrei, Eyal Yifrach (19 anni), Naftali Fraenkel e Gilad Shaar (16 anni) erano stati rapiti e uccisi in Cisgiordania da due uomini palestinesi, appartenenti a un clan vicino ad Hamas. Il triplice sequestro ed omicidio dei tre adolescenti avrebbe ha causato, seppure indirettamente, una delle più sanguinose guerre tra Hamas e Israele: le autorità israeliane hanno risposto al crimine arrestando una serie di esponenti di Hamas; Hamas ha risposto agli arresti bombardando di razzi il Sud di Israele; Israele ha risposto al lancio di razzi bombardando Gaza. Inoltre il triplice sequestro ed omicidio ha provocato una serie di reazioni xenofobe in tutto il Paese. Adolescenti israeliani postavano foto in rete, presto diventate virali, con messaggi come: “Odiare gli arabi non è razzismo, è un valore civico”; mentre nelle strade di Gerusalemme, Rishon LeTzion e altre città israeliane, attivisti di estrema destra si riunivano per urlare “Morte agli arabi!”.

[…]

“È arrivato il momento di ammettere che Israele è una società malata”, ha detto il presidente israeliano Reuven Rivlin, qualche mese dopo l'assassinio di Mohammed Abu Khdeir. A differenza di altri politici e commentatori, Rivlin si è rifiutato di leggere quello e altri episodi di violenza tra arabi ed ebrei come opera di estremisti, pazzi o malati, poche mele marce che nulla hanno a che vedere col resto della società. A preoccupare il presidente sono certi toni, un tempo inauditi fuori dagli ambienti ultra-nazionalisti ed ora improvvisamente diventati accettabili, se non proprio comuni, anche tra le persone “normali” a fare suonare un campanello. Sono le ragazzine, graziose e ben truccate, che si fanno autoscatti con scritte come “odiare gli arabi non è razzismo”. Sono i genitori che protestano se una scuola accetta studenti musulmani.

“Non mi domando se si sono dimenticati come comportarsi da ebrei”, ha detto Rivlin. “Piuttosto, la domanda è se hanno scordato come si comporta un essere umano decente”. Non è una distinzione da poco. Perché la distinzione tra valori ebraici e valori universali è una delle questioni alla base della delusione di chi, a un certo punto, ha cominciato a dubitare la sua appartenenza alla nazione israeliana. Non soltanto Sayed Kashua, lo scrittore arabo-israeliano che a un certo punto s'è convinto che Israele non era più casa sua, ma anche un crescente numero di giovani, ebrei e israeliani di nascita, che hanno iniziato a sentirsi a disagio nel loro stesso paese. Alcuni – poche migliaia, a dire il vero, si tratta ancora di un fenomeno esiguo nei numeri ma molto importante da un punto di vista culturale – hanno scelto di lasciare il paese per ragioni ideologiche. Altri hanno scelto di definirsi “post-sionisti”, a significare che l'ideologia che ha portato alla nascita della loro nazione non è più compatibile con i valori universali di giustizia e uguaglianza, o se non altro con la loro declinazione del nuovo millennio.
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